Albania, viaggio nel tempo tra memoria e speranza

di Vincenzo Marinelli

Il grande sviluppo dei mezzi di trasporto e di navigazione dei nostri giorni rende possibile percorrere grandi distanze in poco tempo, giungere in luoghi situati molto lontano in poche ore, ma ci sono anche brevi distanze che si fanno irraggiungibili e che non si possono colmare se non con il passare del tempo, di anni, di decenni. Questa è la distanza che separa l’Albania, con la sua tormentata storia, dal nostro paese. Visitare l’Albania è stato un viaggio a ritroso nel tempo, più che un viaggio geografico. Le coordinate di questo viaggio nella storia, più vicine a noi, sono soprattutto tre, senza la conoscenza delle quali è difficile collocarsi nella sofferenza che ha attraversato questo popolo, comprenderne le cause della povertà materiale e spirituale, ma soprattutto ammirarne la speranza e restare edificati dalla forza morale e religiosa, talvolta così profonda da giungere fino al martirio.

La prima coordinata è la vittoria delle elezioni nel secondo dopoguerra del Fronte nazionale e l’istituzione  di un governo prima sul modello sovietico e poi alleato con la Cina comunista.

La seconda coordinata è il 1967, anno in cui l’Albania si dichiara il primo stato ateo al mondo con la relativa persecuzione di tutti coloro che effettuavano qualsiasi tipo di propaganda religiosa o che professassero una qualsiasi fede. L’ultima coordinata è il 1990, anno in cui viene ripristinata la libertà di culto.

Difficile sintetizzare in poche righe le condizioni di vita tra queste coordinate storiche e le testimonianze che sono state offerte ai SEMinaristi e ai PREti giovani della diocesi (SEM.PRE), accompagnati dal nostro Vescovo. Sono state occasione preziosa per interrogarsi sulla coerenza e sull’impegno da noi e dalle nostre comunità profuso nel testimoniare la fede, nell’annunciarla, e ci hanno offerto elementi utili per confrontare il modo di sostenere e affrontare le nostre difficoltà ministeriali e pastorali.

Da quanto ci è stato narrato, non sarebbe fuori luogo richiamare alla mente le difficoltà di vivere la fede del periodo delle catacombe, dove occorreva nascondersi nei luoghi e nei modi più impensati per professare la propria fede e per pregare insieme, per celebrare l’eucarestia e amministrare i sacramenti. Le case erano divenute vere e proprie chiese domestiche, dove nel buio più assoluto della notte, rischiarati solo dalla luce di un lumino, si portavano alla luce le immagini sacre; nella preghiera si trovava la forza e la speranza nel futuro e si riconciliava quella comunione familiare, che il clima di persecuzione intendeva frantumare, estorcendo testimonianze d’accusa tra membri della stessa famiglia. Da più voci emerge la gratitudine di poter lodare il nome di Dio e invocarlo senza timore ai nostri giorni.

Molto importante è stata anche la testimonianza dei missionari oggi presenti in questo contesto, una presenza insufficiente per le attuali esigenze, e tra le quali figura anche il monastero delle carmelitane nel villaggio di Nenshat. Alla domanda sul motivo della loro presenza in un territorio bisognoso di forze capaci di mobilitarsi, rispondono con una semplicità disarmante: come le radici di un albero pur essendo nascoste, sono essenziali per la produzione dei frutti, allo stesso modo è  la loro vita di preghiera per l’azione dei missionari. La preghiera tiene vivo e pulsante il cuore della missione, infondendogli l’amore.