La lotta al caporalato ma senza memoria

di Giovanni Capurso

Il caporalato è qualcosa di antico forse quanto l’Italia postunitaria. E ciclicamente i fatti di cronaca estivi, come quelli del Foggiano di sabato e lunedì che hanno provocato numerose  vittime con la stessa dinamica – uno scontro del furgone dove erano ammassati i lavoratori, di ritorno da una giornata di raccolta sui campi di pomodori – riportano in auge il tema. Il mondo dell’agricoltura, infatti, è puntualmente contrassegnato da diritti violati e calpestati nonostante il suo ruolo cruciale per l’economia dello Stato e per le vite dei cittadini. Sfruttamento di braccia e di persone per pochi euro a quaranta gradi sotto il sole da parte di imprenditori senza scrupoli. Sono storie di lavoratori, non di invasori o clandestini, a cui bisogna riconoscere dei diritti elementari.
Purtroppo il punto sta nella nostra memoria molto corta e si tende a sovrapporre il problema con quello dell’immigrazione. Così dopo decenni di lotte per la riforma agraria, botte, morti, massacri, prigioni; dopo i Fasci siciliani (niente a che fare col Fascismo, tranquilli), le marce, convegni e la vita intera di uomini come Di Vittorio; dopo la legge sul caporalato guadagnata con fatica oltre un anno fa (29 ottobre 2016, n.199), i libri e i documentari ( cito a memoria Uomini e caporali di A. Leogrande, Mafia caporale di L. Palmisano, La giornata di P. Mezzapesa su Paola Clemente) incontri persone nei bar che ti dicono: “Come mai ve ne accorgete solo adesso? Parlate del caporalato solo perché si chiamano Abdullah? E gli italiani, eh…?”.
Ecco come frasi senza cervello, senza storia, senza lavoro alle spalle, possono distruggere secoli di lavoro degli italiani migliori. Teniamo a dire che la dignità della persona non cambia a seconda del colore della pelle o della provenienza.