Ripensare l’educazione attraverso il digitale

di Giovanni Capurso

immagine: web

“Al mattino, quando non hai voglia di alzarti, ti sia presente questo pensiero: mi alzo per compiere il mio mestiere di uomo” (Marco Aurelio, Pensieri, V 1).

Rispetto al passato oggi si impongono sempre più nuovi mezzi di comunicazione delle idee, in cui a dominare sono le immagini nei tanti mezzi audiovisivi e multimediali. Così da alcuni anni, molti insegnati e operatori dell’ambito educativo, si sono convinti (forse ingenuamente) che le tecnologie digitali siano la panacea di tutti i problemi educativi. Sono caduti nell’equivoco, o nell’illusione, che un’educazione di qualità possa essere fatta solo attraverso l’ausilio della tecnologia.

Precisiamo subito che certamente la digitalizzazione ha una sua indubbia utilità, come il potenziare i processi cognitivi, la diffusione delle informazioni e la velocizzazione di alcune forme di apprendimento, quindi non è assolutamente nostra intenzione demonizzare questi strumenti. Ma il senso critico, la capacità di giudizio, l’orientamento delle scelte consapevoli, in sintesi il cuore dell’educazione, può realizzarsi solo attraverso l’incontro tra due individualità. “Qualcuno – dice Giovanni Reale – ha già teorizzato il passaggio del sapere dagli insegnanti alle macchine. Nei fatti gli insegnanti dovrebbero diventare dei tecnici, degli assistenti delle macchine. In questo modo si rompe il rapporto fra persona e persona e la scuola non è più scuola secondo un modello che è servito a costruire la nostra cultura (quindi anche le nuove tecnologie) per migliaia di anni”.

Di fatto un modello come questo riduce in senso nichilista il rapporto umano discepolo-maestro, rischiando di ridurre l’uomo in homo videns.

Se invece il senso ultimativo dell’insegnamento è realizzare quel “mestiere d’uomo” di cui parla lo stoico Marco Aurelio, allora parliamo di un valore che la scuola deve recuperare interamente per essere veramente se stessa, opponendosi a riforme affrettate, ispirate a un deleterio paradigma digitale “fondamentalistico”, che mira soprattutto a scuotere la pubblica opinione per ragioni politiche, ben più che a realizzare gli obiettivi propri del sistema formativo che ne costituisce l’essenza.

Un uso non saggio delle tecnologie informatiche rischia concretamente di portare a una contrazione del linguaggio (peraltro già visibilmente in atto), e quindi allo smarrimento della sua grande ricchezza spirituale alla base della cultura occidentale. Anzi, una delle grandi sfide dell’educazione delle prossime generazioni sarà quella umanizzare la tecnica stessa, come dice il filosofo Edgard Morin, cioè costruire un’etica capace di metterla realmente al servizio dell’uomo. Per far ciò bisogna rendersi conto che solo la “sacralità” della parola, attraverso il dialogo tra maestro e discepolo, è in grado di rendere giustizia alla dimensione più spirituale dell’uomo. Platone diceva infatti, con un’espressione suggestiva, che il dialogo è uno “sfregamento di anime” tra un io e un tu. Il termine “sfregamento”, a nostro avviso, rende assai bene l’idea di un confronto forte, anche ruvido, ma sempre indirizzato all’autenticità del sapere, dove lo scambio di domande e risposte mira a far progredire nella verità le anime dialoganti e che né la scrittura, né, a maggior ragione, l’uso dei mezzi digitali possono offrire. Il dialogo educativo mira, allora, “a spogliare l’anima” dai pregiudizi e dalle apparenze per far crescere quel  germoglio di desiderio capace di farla scendere verso ciò che è “bello e buono”.