Risposte certe per chi “ama” la terra

Editoriale n. 8 del 24 febbraio 2019

Rami secchi con nastrini arancioni e un feretro pieno di bottiglie di olio extravergine d’oliva italiano: «è l’immagine simbolo della nostra olivicoltura ridotta ad un cimitero di ulivi per la xylella e per le gelate dello scorso anno – ha affermato il portavoce dei gilet arancioni, Onofrio Spagnoletti Zeuli – senza interventi rapidi e concreti del governo saremo costretti a chiudere tutto e sarebbe una bomba sociale ed economica per il Sud intero».
Dopo la protesta romana del 14 gennaio, cui hanno preso parte centinaia di nostri concittadini e i sindaci dei nostri Comuni, la speranza è che i gilet arancioni possano tornare ad essere utilizzati soltanto per la loro funzione propria, non più per proteste che potevano essere evitate molto prima, già dal giugno scorso, se solo fosse stata riconosciuta la dignità dei nostri coltivatori. Lentezza di cui anche la Regione Puglia ha precise responsabilità (non dimentichiamo le dimissioni, poi rientrate, dell’assessore al ramo).
Ora il decreto è atteso per il 26 febbraio, come promesso dal Ministro Centinaio, e una nuova manifestazione ci sarà ad Andria. Anche noi della redazione indosseremo quel gilet arancione, simbolo di un amore per la terra che caratterizza intimamente le nostre quattro città. è un’emergenza sottovalutata, quando la gelata di un anno fa ha messo a terra un comparto notevole per l’economia locale.
Lo sa bene Antonio, 42 anni, da 20 anni coltivatore diretto autodidatta, dopo aver conseguito un diploma di ragioniere, moglie e tre figli (da 14 anni in giù) e 20 ettari di terreno ereditati dalla famiglia dei quali metà a uliveto con la tipica cultivar Coratina.
La sua azienda dà lavoro a due operai fissi per tutto l’anno e a diversi altri stagionali. Grazie ai terreni buoni e alla ottima resa che riesce a garantirsi (mediamente 21,5 kg di olio a quintale) nell’azienda di Antonio non fa molta differenza l’anno di “piena” con l’anno “vacante” per cui riesce a produrre 80-100 quintali di olio annui. Ma per farlo sostiene 25/30.000 euro all’anno di spese a fronte di una valore di 400-500 euro al quintale di olio venduto (al massimo 50.000 euro quando va bene). Ma Antonio ammette che sta procedendo alla meccanizzazione delle attività perchè i costi di gestione del lavoro sono insostenibili rispetto ai guadagni. E non bastano le quote di integrazione del PAC (Politica Agricola Comune una delle politiche comunitarie di maggiore importanza).
Tuttavia la sua motivazione è forte e non si arrende. Tranne doversi trovare, come quest’anno, senza nemmeno un’oliva da raccogliere e con le stesse spese sostenute comunque per i lavori di rito. «Il problema si vedrà a fine 2019 – afferma amaramente – quando si sentirà il contraccolpo per i contributi da versare ugualmente per me e per gli operai, senza aver guadagnato nulla in questa campagna olivicola ormai chiusa». E resta il punto interrogativo sulla prossima raccolta; si aspetta la nuova fioritura per sapere come andrà nel prossimo inverno.
«L’olio pugliese è unico, quasi metà serbatoio dell’Italia intera, prodotto di eccellenza, ma non pagato adeguatamente – continua Antonio. Purtroppo il prezzo non è stabilito da chi produce, ma da chi commercializza». E nelle sue parole mi sembra di sentire quelle del Papa pronunciate proprio qualche giorno fa alla comunità internazionale, nel discorso al Consiglio dei Governatori dell’Ifad, presso la sede romana della Fao: egli lanciava un appello a “quanti hanno responsabilità negli Stati e negli organismi internazionali, ma anche a chiunque possa contribuire al settore pubblico e privato, a sviluppare i canali necessari affinché si possano implementare i mezzi adeguati nelle regioni rurali della terra, in modo che siano artefici responsabili della loro produzione e del progresso».
Dobbiamo quindi auspicare un maggiore coinvolgimento e protagonimo dei produttori nei processi di commercializzazione dei prodotti. Vale per gli olivicoltori di Puglia, come per i pastori sardi o per i coltivatori di arance della Sicilia. «C’è chi lavora e c’è chi mangia e non sono la stessa persona» chiosa Antonio.
Attendiamo allora il decreto ministeriale e il nuovo piano olivicolo nazionale per dare risposte serie e costruttive che restituiscano valore all’agricoltura; accanto al turismo essa è il motore trainante dell’economia e della cultura locale. Che l’amore per la terra non venga ancora vituperato.Attendiamo che si pongano iniziative certe contro la xjlella che si sta mangiando tutta la Puglia ormai da oltre un lustro (su questo torneremo da queste colonne).
Ritengo che solidarietà e incoraggiamento debba anche esprimere la Chiesa pugliese ai nostri coltivatori in questo momento critico. La loro laboriosa opera, posta sotto il cielo, caldo e freddo, faticosa e poco retribuita, è un avamposto reale di custodia del creato. L’agricoltura è tratto identitario della nostra terra e lo è anche nella simbologia che attraversa ampiamente le Sacre Scritture. L’ulivo, come la vite, il grano… materie necessarie sia per la vita quotidiana sia per quella sacramentale, sono quindi patrimoni imprescindibili che meritano l’attenzione di tutti e, quando necessaria, anche la protesta unanime.