Chiesa locale - Molfetta

S. Teresa: una comunità che non smette di sognare

60 anni della parrocchia 1960 - 10 luglio - 2020

È proprio vero che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
Non si tratta di un semplice convenire per celebrare, quanto di non far mancare alla luce della Parola e dei Sacramenti, quella forza interiore che, pur unificando ciò che distingue, crea la ricchezza della comunità. Il servo di Dio Romano Guardini, filosofo e teologo, “padre della Chiesa del XX secolo” (H.-B. Gerl-Falkovitz) così amava pensare: «la comunità nasce quando i fedeli sono interiormente presenti, quando entrano in contatto reciproco e tutti partecipano dello spazio sacro».

È inesorabile il fluire del tempo lungo lo spazio che abitiamo e che ci sforziamo di curare custodendo tutto e tutti, ma è sorprendente come, pur trascorsi sessant’anni dalla erezione canonica della parrocchia Santa Teresa, per volontà del Vescovo Mons. Achille Salvucci, la comunità continua ad essere quel vincolo sacro che unisce l’uomo all’uomo, per il suo quotidiano pellegrinare da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio. Tale processo avvera che il Cristo Risorto è davvero presente e operante nei membri che costituiscono la Chiesa in un determinato luogo, in virtù dello Spirito Santo.

I volti e i cuori che quotidianamente si incrociano nell’incontro operoso e sollecito, non nascono da un agire impulsivo o volontaristico, ma da un fare sempre molto di più di quanto si crede in questa vita cristiana così imborghesita e impoverita di umanità. In sessant’anni di vita la comunità si è sempre distinta nello sforzo di creare il “noi” evitando la sopraffazione dell’ “io”. Non è mancata la valorizzazione del laicato alla luce del Concilio Vaticano II, di cui si sente sempre figlia, per poter essere l’ambiente naturale per far vivere il dono d’amore di Dio nella logica del «bicchiere d’acqua fresca» (Mt 10,42) offerto ad ogni uomo.

Il tempo già vissuto, lungo questi sessant’anni, tra alti e bassi, non è solo il risultato di una lunga e assidua convivenza, ma anche di un superamento interiore del pensiero e della volontà che si è verificato negli attimi «in cui si vedono, si accettano, si riconoscono veramente gli altri, si fanno proprie le loro preghiere e ci si mette da parte per far loro posto» (R. Guardini). Non si è mai dimenticato l’impulso vitalizzante della novità che ha sempre spinto il parroco fondatore don Gennaro Farinola a vivere la preghiera personale come un incontro rigenerante con Dio, nella cui solitudine è possibile confrontarsi con le proprie contraddizioni, per superarsi, accettarsi e riconoscersi nel servizio al prossimo. Il superamento dell’indifferenza, del disprezzo, dell’avversione, del concorrenzialismo sfrenato, che potevano causare separazione dal mondo e avversione al tempo, sono stati abbattuti dal divenire lungo il tempo una casa per tutti e non solo una parrocchia in un lembo di territorio delimitato dai confini canonici. «Accogliere tutti per presentarci con loro davanti a Dio» era il leitmotiv con cui il compianto don Gennaro ha vivacizzato la parrocchia rendendola fruibile ad ogni persona.

Se ogni comunità è Chiesa, si rinnova la consapevolezza che questa è portatrice di azione sacra per additare all’inquieta ricerca dell’uomo, «il nuovo cielo e la nuova terra» (Ap 21,1) che esprimono l’illimitata essenza dell’uomo. Così anche don Liborio A. Massimo, secondo parroco, ha operato per riportare l’uomo frammentato dal maligno, a ricostituire quell’unità interiore redenta, che attualizzando la «nuova creazione» ha sradicato la comunità dalle logiche asfittiche delle abitudini sterili.

Non bastano sessant’anni per accorgersi che la comunità parrocchiale non è una cerchia ristretta, una élite di persone, una pluralità di associazioni, un’alleanza di buoni compagni chiusi in se stessi, ma si raggiunge con la maturità della fede la consapevolezza che il centro propulsore di una comunità lungo il suo tempo di vita, resta sempre l’Eucaristia, il cui altare quale insigne cattedra di vita, sovverte i piani dell’uomo ricalibrandoli su «quel “noi” che parla sull’altare» (R. Guardini).

Cosa abbiamo imparato in questi sessant’anni di vita? Ciò che il magistero episcopale del Servo di Dio don Tonino Bello, compianto e amato Pastore della nostra chiesa diocesana, così ritraeva in una luminosa intuizione: «Bisogna stare attenti nell’allacciare rapporti umani più credibili, più veri. Basati sulla contemplazione del volto. Rapporti umani basati sull’etica del volto, dello sguardo. Dobbiamo sviluppare l’etica dell’altro, arricchirci della presenza dell’altro».

Si fa urgente per noi, l’opera di ri-educarci a parlare al cuore dell’uomo, con il «sussurro» (Os 2,16) tipico di Dio che per percepirlo basta chiudere gli occhi e sognare con Lui.

Nicola Felice Abbattista, parroco