Dallo stallo al rilancio? Insidie e nuovi ostacoli sul cammino dell’Unione

di Gianni Borsa (sir)

Parlamento europeo

L’accordo sulle nomine per le alte cariche dell’Ue (presidenti di Commissione, Consiglio e Bce, Alto rappresentante per la politica estera) faticosamente raggiunto al summit dei capi di Stato e di governo del 30 giugno-2 luglio, e l’elezione dei vertici del Parlamento di Strasburgo (presidente, 14 vice e 5 questori), se per un verso fanno ripartire la macchina comunitaria, dall’altro sollevano questioni vecchie e nuove che lo stesso Donald Tusk, presidente in carica del Consiglio europeo, ha – almeno in parte – rimarcato il 4 luglio dinanzi all’emiciclo di Strasburgo.

Le parole di Tusk. Il presidente del Consiglio europeo Tusk si è detto soddisfatto per la parità di genere – due donne e due uomini – nelle alte cariche che spetta al Consiglio europeo indicare (salvo il voto di fiducia che dovrà venire alla Commissione dall’Eurocamera): un segnale da non sottovalutare in una politica sempre troppo al maschile.Lo stesso Tusk ha però sottolineato il fatto che è mancato un equilibrio “geografico”, nel senso che nella ripartizione dei posti l’Europa centro-orientale è rimasta totalmente a bocca asciutta.Inoltre Tusk, con una valutazione inusuale per il ruolo che ricopre, ha affermato che occorrerà coinvolgere i Verdi nelle alte sfere dell’Unione europea. Una valutazione che rispetta il voto popolare del 23-26 maggio, quando gli ecologisti hanno avuto ottimi risultati in alcuni Paesi; ma che appare come una nota stonata se dimentica che altre forze – generalmente indicate come nazionaliste o populiste – hanno avuto eguale, e talora maggior sostegno dagli elettori europei. Detto questo, l’accordo sui top job messo nero su bianco dai leader europei, apre a qualche ulteriore valutazione.

Un valore aggiunto. Gli sbilanciamenti territoriali e politici, e il sostanziale affossamento della sbandierata procedura degli Spitzenkandidaten (maldestro tentativo di dar voce agli elettori per la scelta del presidente della Commissione), non nascondono la volontà di far ripartire l’Ue dopo mesi di stallo della politica comunitaria, e dopo anni di sofferenze per le due successive crisi che hanno segnato i popoli europei e le opinioni pubbliche dei 28: quella economica e quella migratoria. L’Europa può essere un valore aggiunto per affrontare le sfide epocali che si hanno di fronte; nessuno (salvo che negli slogan elettorali) vuol più mandare in pensione l’Ue; tutti i politici si dicono d’accordo nel volerla “riformare”; anche se – e qui sta il punto – risolutivi progetti di riforma/rilancio non si vedono all’orizzonte.

Almeno quattro insidie. Accanto alla voglia di ripartire, si collocano poi parecchie insidie emerse proprio in questa fase della politica fra Bruxelles, Strasburgo e le capitali dei Paesi membri. Anzitutto si sono sperimentate visioni diametralmente diverse di ciò che è e ciò che dovrebbe essere e fare l’Unione europea di domani (competenze Ue; rapporto tra istituzioni Ue e Stati membri; rapporto con i cittadini).Se il criterio di solidarietà, che è la radice storica dell’integrazione comunitaria, oggi appare come un valore negletto, il principio di sussidiarietà non è ancora elemento sufficiente per regolare ruolo, compiti e strumenti (a partire dal bilancio) dell’Unione europea nel suo interloquire con gli Stati aderenti.Secondo: piaccia o meno, l’impasse istituzionale potrà essere superato grazie, ancora una volta, al peso dell’asse Germania-Francia, che da una parte è garanzia di dinamismo, ma dall’altra tende a mostrare un’Europa troppo piegata su assetti e interessi che nascono a Berlino e Parigi, non nelle sedi Ue. Terzo: la scelta dei nomi per i posti chiave dell’Unione (la tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione; la francese Christine Lagarde alla Bce; il belga Charles Michel al Consiglio europeo; lo spagnolo Josep Borrell agli esteri) mostra un certo “rigorismo di ritorno” e, come detto, un “occidentalismo” che non ha più ragione di essere in un’Europa del dopo-Cortina. Quarto: in questo senso, l’isolamento – o “cordone sanitario” – registrato attorno ai governi di alcuni Paesi come l’Italia, la Polonia, l’Ungheria e il Regno Unito, rischia di ridar fiato allo scontro tra europeisti e sovranisti, a vantaggio di quest’ultimi, che di certo non favorisce il complessivo cammino dell’Unione.

Da dove ripartire. Cosa resta sul tavolo? Di sicuro si può dire che le elezioni del 23-26 maggio non hanno portato novità sostanziali nei palazzi Ue. Benché alcuni leader nazionali – italiani compresi – volevano far credere a un punto di non ritorno, a un cambio di marcia dell’Unione, in realtà il peso dei politici e persino dei voti euroscettici è per ora quasi nullo. Lo dimostrano proprio le modalità con cui il Consiglio europeo ha deciso i nomi per i top job, e i curricula degli stessi nominati, chi più chi meno di fede europeista.Non si può peraltro ignorare che l’Ue ha bisogno di novità: politiche, progettuali, istituzionali, simboliche.E volendo ci sarebbero anche dichiarazioni e discorsi da considerare a questo fine (da mettere magari al centro di una Conferenza europea sul futuro dell’Unione): la “Dichiarazione di Sibiu” del 9 maggio 2019, l’“Agenda strategica 2019-2024” siglata al vertice del 20-21 giugno, e il discorso del neo presidente del Parlamento David Maria Sassoli del 3 luglio, offrirebbero di per sé punti sui quali provare a ricucire la politica comunitaria, confermando la fedeltà al percorso storico finora compiuto senza rinunciare a innovare, laddove occorre, per continuare il cammino verso un’Europa unita, coesa, equa, sicura e aperta al mondo. Quell’Europa di cui, consapevolmente o meno, i cittadini Ue hanno bisogno.