Luce e Vita - Storia

Giuseppe Di Vagno: un dibattito ancora aperto dopo cento anni

24-25 settembre convegno a Conversano con Mattarella

di vagno

A distanza di cento anni dalla morte di Giuseppe Di Vagno, il ritrovamento di nuove fonti come carteggi, verbali di assemblee, documenti di archivio e perfino foto messe a disposizione soprattutto dalla Fondazione “Giuseppe Di Vagno (1889-1921)”, ha generato un rinnovato interesse verso la sua tragica vicenda.
Dietro queste ricerche non c’è solo il dovere morale di fare i conti con la Storia, ma anche l’urgenza, dopo il revisionismo pericoloso e “smemorato” degli ultimi anni, di ancorarsi più saldamente alla storia del nostro Paese. Non c’è modo migliore infatti che richiamarsi al passato per contrastare certe derive che vedono nell’esperienza fascista degli aspetti che “dopotutto non sono stati così male” come dicono in troppi.
Preservare e, in alcuni casi, consolidare la memoria è un debito che abbiamo soprattutto nei confronti delle generazioni presenti e di quelle future.
Non dobbiamo dimenticare che nel XX secolo l’Europa è stata schiacciata dal controllo dell’informazione da parte dei totalitarismi: cosa si doveva o non si doveva sapere, avrebbe significato un giorno, cosa si deve o non si deve ricordare. Oggi abbiamo un problema diverso, per certi versi opposto: la sovrabbondanza di comunicazione dovuta al proliferare dei social media che ha generato una sorta di oblio dovuto alla confusione di memoria rispetto a ciò che è importante nella storia. Si tratta pertanto di salvare ciò che è fondamentale per il nostro progresso civile e sociale. La democrazia della sovrabbondanza di informazioni consentita dal Web, pur avendo grandi vantaggi, minaccia la selezione dei ricordi, come intuì Tzvetan Todorov. In un famoso discorso tenuto a Bruxelles nel 1992 il noto storico e saggista evidenziò come ci stiamo rapidamente allontanando dalle memorie del passato, “tagliati fuori dalle nostre tradizioni e abbruttiti dalle esigenze della società edonista, privi di spirito curioso come di familiarità con le grandi opere del passato, saremo condannati a celebrare allegramente l’oblio e ad accontentarci delle vane glorie dell’istante” .
Dunque, a maggior ragione, in un tempo come il nostro è importante rivalutare una vicenda come quella di Giuseppe Di Vagno che è stato l’antesignano, e allo stesso tempo il più paradigmatico, di questo tentativo di cancellazione della memoria. Per certi versi l’affaire Di Vagno fa scuola. Sì, perché la violenza passa anche attraverso l’oblio e oscuramento, quella stessa memoria che abbiamo il dovere di custodire affinché le generazioni future non cadano negli stessi errori.
Da questo punto di vista, la sua vicenda è la storia di quella ingiustizia che lui stesso ha sempre combattuto. Una duplice ingiustizia: la prima è quella consumata nei tribunali ante e post guerra, la seconda forse più grave è quella nei riguardi della Storia poiché il suo è un clamoroso e inspiegabile caso di marginalizzazione storiografica. Benché da alcuni anni valenti storici se ne siano occupati, la tragica vicenda del parlamentare pugliese ha subito una sorta di damnatio memoriae. Quel fumus di grandezza che giustamente si è diffuso per altri antifascisti, come Giacomo Matteotti o Piero Gobetti, purtroppo non c’è stato per l’astro nascente del socialismo pugliese. Eppure avrebbe tutte le carte in regola per rientrare in questa ristretta èlite: antimilitarista e pacifista intransigente, Di Vagno fu internato due volte a causa della sua contrarietà alla partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra. Fu anche uno dei primi “avvocati sociali” della Puglia, difendendo i contadini poveri nelle cause legali contro i soprusi dei latifondisti, spesso prestando la sua assistenza gratuitamente. Le sue battaglie lo resero sempre più inviso a molti, compresi i nazionalisti, imbevuti dopo la Grande guerra di una cultura della violenza. Fu anche grande amico e collega di Gaetano Salvemini. Nel maggio 1921, poco più che trentenne, venne eletto in Parlamento, prendendo addirittura più voti del suo conterraneo Giuseppe Di Vittorio, successivamente leader del sindacalismo italiano. Non passò molto tempo che il giovane parlamentare venne freddamente raggiunto da alcuni colpi di pistola a Mola di Bari dopo l’ennesimo coraggioso comizio dove invitava tutte le forze politiche alla pace e alla concordia. Morì in ospedale il giorno dopo. Era il 26 settembre 1921.
Durante il processo che ne seguì, nel pieno dell’ascesa del fascismo, l’evento fu relegato a banale contrasto tra bande locali, nonostante diversi intellettuali ne evidenziarono da subito la rilevanza assoluta. Anche il secondo processo, che si aprì dopo la lunga notte del regime, si chiuse nel clima assolutorio nato dalla voglia di ritornare alla normalità e sigillato dal famoso Decreto Togliatti.
In realtà, il delitto del “gigante buono”, come lo chiamavano i compagni in Terra di Bari, è un fatto centrale nella genesi del fascismo, in quanto ruppe il Patto di pacificazione che Mussolini stava faticosamente portando a termine per parlamentarizzare il suo movimento e aprì definitivamente la strada a quell’anima del fascismo più facinoroso, quello agrario. Insomma, senza quel delitto, la storia della nostra Italia forse avrebbe preso una strada diversa. Nessuno può dirlo con certezza. Ma il drammatico evento solleva sicuramente una questione sulla quale è importante riaprire un dibattito storico di ampio respiro.
Con la mia recente biografia La ghianda e la spiga (Progedit, 2021), ho cercato in parte di rendere giustizia a questa storia luminosa. Il titolo stesso del libro riprende l’ultimo articolo di Di Vagno, intitolato La fiaba del grano (riportato nel testo) che racchiude l’essenza degli ideali del giovane politico pugliese improntati alla ricerca della giustizia sociale: la ghianda è ciò che rimane al contadino dopo le lunghe e faticose ore di lavoro passate sotto il sole, mentre la spiga, ovvero la parte migliore, va a chi gode passivamente del frutto del sacrificio altrui.
Giuseppe Di Vagno è stato uno di quei rarissimi testimoni a cui si addicono le parole di Leopardi quando affermò che ci sono uomini che sanno vivere morendo in un mondo dove troppi muoiono vivendo.