La dignità prima di tutto

di Giovanni Capurso

Non è passato molto tempo da quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alle due Camere un messaggio sulla situazione delle carceri, in cui definisce la posizione italiana «umiliante sul piano internazionale per la violazione dei diritti umani dei detenuti». Questo, in realtà, è stato l’ultimo di una lunga serie di inviti pressanti sul tema. L’ultimo, in particolare, di fatto recepisce e accoglie la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ha concesso un anno all’Italia, fino a maggio 2014, per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. Nel messaggio, si fa riferimento ai possibili rimedi: innovazioni strutturali per ridurre il numero delle persone in carcere, aumento della capienza delle strutture penitenziarie e come extrema ratio quelli che vengono definiti rimedi straordinari, cioè indulto e amnistia.

Ora, senza entrare nel merito del dibattito politico che ha creato tale richiesta, non vi è dubbio che la situazione di disumanità in cui si trova a convivere la persona carcerata nel nostro Stato sia un’evidenza.

Ad oggi gli istituti di detenzione presenti in Italia sono 206; il totale dei detenuti presenti in queste carceri sono 64.758 contro una capienza regolamentare di 47.615 posti: 2.821 sono donne, 22.770 stranieri e 863 soggetti in semilibertà, di cui 90 stranieri. Sulla base dei numeri potremmo tranquillamente dire che il sovraffollamento delle carceri sia l’unico aspetto negativo del sistema penitenziario italiano, ma ovviamente non è così.

A determinarne l’emergenza ci sono una molteplicità di altri importanti aspetti quali le condizioni inumane in cui vivono i detenuti, le scarse cure cui sono sottoposti, le condizioni igieniche molto precarie, la tossicodipendenza, fino alla carenza di personale penitenziario e alla scarsa sorveglianza sugli stessi detenuti. A tutto questo possiamo tranquillamente aggiungere l’irragionevole durata dei processi.

Se si entra poi nel merito della sentenza con cui Strasburgo condanna l’Italia (sentenza Torreggiani del 2013), si vede  che la Corte addebita al nostro sistema carcerario «trattamenti inumani e degradanti» non solo per la ristrettezza degli spazi a disposizione di ciascun detenuto, ma per la gestione ordinaria del carcere: eccessiva chiusura delle celle ed esclusione del detenuto da spazi comuni; mancanza di refettori, di opportunità lavorative e di studio; insufficiente ventilazione o illuminazione delle celle.

In poche parole: la Corte europea dei diritti dell’uomo ci dice che la nostra principale violazione è di aver tradito la nostra stessa legge fondamentale. La Costituzione italiana  all’articolo 27 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma possiamo citare anche  l’Ordinamento Penitenziario il quale afferma ‘ in continuità con la Costituzione – che ‘il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona’. E infatti l’Italia è il secondo Stato europeo con il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il dibattito sulla giustizia, che si è scaldato negli ultimi giorni attorno ai temi dell’amnistia e dell’indulto, non è solo politico ma anche civile, culturale, etico e per certi aspetti scientifico. Nella mitologia greca Nemesi, dea della vendetta, era il volto tragico di Dike, dea della giustizia. Per molti secoli il concetto di vendetta e giustizia sono stati interscambiabili, finché arrivò l’insegnamento cristiano, che introdusse l’idea di perdono e di ravvedimento: la «metànoia» che Giovanni Battista predicava (cfr Mt 3, 8) sulle rive del Giordano. In sostanza la possibilità di una metanoia presuppone che anche chi ha sbagliato può ravvedersi.

Un principio ripreso in età illuministica, quando ancora la gran parte dei Paesi non intravedeva neanche l’idea di una giustizia rieducativa, dall’italiano Cesare Beccaria. Quest’ultimo, pur non citando mai la parola amnistia, nei Dei delitti e delle pene diceva che «la clemenza e il perdono diventano meno necessari a misura che le pene divengono più dolci». E riteneva dunque «felice la nazione» in cui la clemenza potesse essere esclusa, come conseguenza della «dolcezza delle pene». Ma noi non siamo una «nazione felice». E il nostro sistema carcerario ha bisogno, ciclicamente, di interventi straordinari di clemenza. Ce lo ribadiscono non solo la corte di Strasburgo e il Capo dello Stato, ma tutti coloro (dai direttori di carcere ai volontari) che quotidianamente sono a contatto con la realtà penitenziaria. Ci sono direttori di carcere che, facendo salti mortali, riescono ad avere carceri con celle chiuse solo di notte, laboratori, palestre, corsi di studio, apertura alla società e all’università. Accanto a queste realtà positive, abbiamo realtà infernali, che gli avvocati delle Camere penali e le associazioni che si occupano di carcere puntualmente denunciano.

Un sistema carcerario punitivo è contro la civiltà ed è contro la scienza. La ricerca scientifica ha ormai dimostrato in modo certo che il Dna dell’uomo è programmato per il mantenimento della specie e invita dunque a procreare, educare, abitare, sapere, costruire ponti e legami che rendano più sicura la vita. Pertanto l’uomo è biologicamente portato al «bene», e il «male» è la reazione a situazioni avverse, ad abusi o violenze subite. Come diceva sant’Agostino il male è la privatio boni, l’ombra del bene o la sua assenza. Di conseguenza, se il bene è l’origine, è possibile riportarvi chi è caduto nel vortice del crimine. Anche qui ci viene in aiuto la ricerca scientifica che, come ha detto Umberto Veronesi, ci ha confermato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona messa in carcere non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare ed evolversi, adattandosi a nuovi stimoli.

Purtroppo la realtà delle nostre carceri sembra ignorare del tutto questo punto. Ma se neppure la dignità è rispettata, come si può anche solo pensare a una rieducazione? Del resto la nostra legge ammette ancora l’ergastolo ostativo, che è un’infamia, una condanna a morire in carcere; dunque una forma diversa, ma non meno crudele, di pena capitale: una pena di morte civile o pena fino alla morte, perché chi sa di non poter mai più tornare alla sua vita, è condannato ad una agonia lenta e spietata.