I problemi dell’Africa e il buonismo sportivo

di Romanello Cantini

Per un mese si parlerà un po’ in tutto il mondo di Campionati di calcio e di poco altro. Tutte le tifoserie nazionali sono ormai in fibrillazione. Ma soprattutto sono i cinquanta milioni di sudafricani che sembrano impazzire di entusiasmo per un campionato del mondo che per la prima volta sbarca in Africa.

In quasi duecentomila hanno accolto la propria squadra che tornava da un lungo periodo di addestramento all’estero. E poiché, dopo i Mondiali in Sudafrica tutto sembra possibile, nella fantasia nazionale si dà quasi per ovvio che, dopo aver ospitato la competizione, ora la si può e la si deve anche vincere.

Lo sport è sempre stata una grande passione della cultura nera che in passato vedeva nel campione sportivo l’unico eroe della sua gente che poteva essere miracolato dal successo. Perfino Mandela, l’ex-pugile, nei suoi diecimila giorni di prigionia non smise mai di fare ginnastica nella cella di tre metri per due. E se finalmente il Sudafrica è riuscito a ottenere i Mondiali lo si deve al lungo lavoro diplomatico del suo ex-presidente Thabo Mbeki che ha governato il Paese fino all’anno scorso, ma soprattutto al fascino enorme di quel mito vivente che è il novantaduenne Mandela accompagnato in questa opera di seduzione dei potenti del calcio mondiale dagli altri premi Nobel sudafricani come Desmond Tutu e Frederik De Klerk.

E, tuttavia, se per questo lato anche i Mondiali sono almeno in parte una sorta di risarcimento dell’apartheid durata fino a sedici anni fa, bisogna guardarsi da una retorica caramellosa, corrente soprattutto in questi giorni, figlia del solito buonismo sportivo e dello stessa euforia sudafricana, per cui sembra che i Mondiali non solo entusiasmano, ma risarciscono, aiutano e quasi guariscono l’Africa da tutte le sue piaghe storiche. La Federazione del calcio mondiale non è un’opera di beneficenza e nemmeno una pia organizzazione umanitaria. Sta attenta ai bisogni del pallone più che a quelli del globo, guarda allo sport e al fair-play fra i popoli che lo rendono possibile, ma anche ai suoi interessi e in buona parte anche ai suoi soldi. Il primo Mondiale in Africa ha soprattutto lo scopo promozionale di diffondere il calcio nel continente nero, così come il Mondiale in Corea del Sud e Giappone di otto anni fa ebbe lo scopo di diffondere il football in Asia sostituendolo al baseball.

La Fifa è anche una delle poche multinazionali che non soffre crisi dal punto di vista economico. Il suo reddito annuale si è quasi raddoppiato negli ultimi dieci anni superando il miliardo di dollari. Negli ultimi venti anni i profitti che la Fifa ricava dalla vendita dei diritti televisivi dei Mondiali si sono moltiplicati per venti superando ampiamente questa volta i due miliardi di dollari.

E bisogna purtroppo anche aggiungere che la Fifa, come i greci antichi, deve fare paura anche quando fa regali. Per ottenere i Mondiali il Sudafrica ha dovuto costruire ben cinque stadi nuovi. Uno solo di essi, quello del Capo, è costato 440 milioni di euro. Quando fra meno di un mese lo sballo dei Mondiali sarà passato e questi stadi rimarranno sottoutilizzati per l’eternità avranno sempre un costo di manutenzione che è stato calcolato in quindici milioni di euro all’anno. Il valore di un euro per un sudafricano non è quello che possiamo dargli in Europa. Noi con due euro non compriamo nemmeno un pacchetto di sigarette. In Sudafrica due euro sono l’equivalente del reddito medio giornaliero di quattro sudafricani su dieci. E cinque stadi nuovi di zecca che si aggiungono ai cinque esistenti sono evidentemente un po’ troppi per un Paese che avrebbe bisogno di almeno sei milioni di abitazioni.

Il Sudafrica spera di rifarsi almeno in parte con gli introiti del turismo sportivo. Ma anche in questo settore la Fifa ha voluto ridurre la sovranità sudafricana. Ha in parte assunto la gestione dei soggiorni in Sudafrica, si è attribuita il controllo dei marchi e della riproduzione delle maglie e delle licenze a pagamento della ristorazione nei dintorni degli stadi oltre a farsi pagare naturalmente anche dal Sudafrica i salati diritti televisivi in gran parte recuperabili solo con le tasse statali. E alla fine così tutto sommato si cerca di fare business dentro una realtà fatta in gran parte di una povertà che esiste anche se si cerca in questi giorni di nasconderla a chi entra solo negli alberghi e negli stadi.

E in fondo si fanno pagare anche i grandi sogni di cui la gente alla fine ha bisogno per concedersi nell’immaginazione almeno un mese di ferie dal suo presente.