Luce e Vita - recensione

L’amore non basta. Don Ciotti e don Tonino nel libro autobiografico del fondatore di Libera

Intervista su Avvenire del 28 giugno 2020

Il libro L’amore non basta (Giunti, 320 pagine, 18 euro) racconta i primi 75 anni di questo sacerdote sempre dalla parte degli ultimi. Un prete che si batte per una maggiore giustizia sociale, per una società dove tutti, a partire dai più fragili, siano riconosciuti nella loro libertà e dignità di persone. Ma ripercorrere la sua esistenza, dal lavoro al Gruppo Abele fino all’esperienza di Libera contro le mafie, è anche un modo per raccontare in controluce le vicende cruciali della recente storia del nostro Paese, ponendo al centro quei problemi che la classe politica non ha mai affrontato alla radice, a cominciare dalla mafia e dalla droga, a causa della corruzione, abusi di potere e calcolate negligenze. Il prossimo 2 luglio alla 19.15 don Ciotti presenterà il suo libro a Firenze, alle Serre Torrigiani, all’interno dell’omonimo giardino. Con lui Agnese Pini e Raffaele Palumbo.

Il fondatore di “Libera” si racconta in un libro: il rischio è desiderare il ritorno a una normalità che era molto malata ben prima dell’arrivo del virus. Il crimine trova sempre nuove occasioni di potere a causa dell’osmosi tra legalità e illegalità Il legame con don Tonino Bello: il suo primo Vangelo era la santità della povera gente e considerava la povertà come una condizione imprescindibile per viverlo appieno «Se vogliamo contrastare le ingiustizie che la pandemia ha messo in evidenza, una volta passata l’emergenza sanitaria dobbiamo osare, incamminarci per sentieri nuovi, rinunciare a sicurezze e abitudini» «Oggi è necessario non allentare le misure di controllo e prevenzione della corruzione che qualcuno vorrebbe eliminare in nome della pur necessaria deburocratizzazione»

Tra i personaggi spicca don Tonino Bello. Che rapporto vi ha uniti?

Lo conobbi negli Anni ’80 e subito capii che quell’uomo incarnava l’idea di Chiesa nella quale anch’io mi riconoscevo. Una Chiesa non solo per gli ultimi, ma con gli ultimi, immersa nel mondo però svincolata dalle sue logiche di potere. «La Chiesa è per il mondo, non per se stessa», usava dire. E ancora, «ai segni del potere si sostituisca il potere dei segni». Spesso mi raccontava di un amico senza dimora, o meglio con una dimora ridotta ai minimi termini: una scatola di cartone che don Tonino definiva «un ostensorio, contenitore di frammenti di santità?». Si chiamava Bartolo e viveva vicino al Vaticano… La santità della povera gente era il suo primo Vangelo, anzi considerava la povertà come una condizione imprescindibile per viverlo appieno. Da qui nasceva il suo messaggio radicale e scomodo, nell’epoca di un benessere fondato sui consumi: saranno i poveri a salvare noi, non certo il contrario. Il suo era un parlare profetico da cui discendevano sempre azioni di coraggiosa coerenza, per questo era per me una specie di fratello maggiore.

Colpisce anche Roberto Antiochia, agente di 23 anni: chiese di essere trasferito in prima linea a Palermo contro la mafia e una settimana dopo è stato assassinato. Quale forza determina una generosità così estrema?

Innanzitutto la passione per la sua professione, Roberto prende coscienza che il cambiamento avviene solo se ciascuno dà il contributo di se stesso. E poi l’affetto profondo per i suoi superiori e maestri. Trasferito a Roma da mesi, Roberto torna a Palermo per il funerale del commissario Montana e lì si accorge che anche l’altro commissario Cassarà è minacciato, così chiede di essere riaggregato. L’amore, se non si impregna di questa dimensione di giustizia ed empatia per le ingiustizie altrui, non basta.

Papa Francesco ha detto che dall’emergenza Covid potremo uscire migliori o invece molto peggiori. Che cosa pensa di come la pandemia ci ha imposto cambiamenti anche duri? E di come le mafie si stanno infiltrando nella ripresa, approfittando nei vuoti lasciati dallo Stato?

I cambiamenti “imposti” – per decreto o dalle contingenze non sono mai veri cambiamenti ma adattamenti. I cambiamenti veri partono da dentro, da un processo interiore spesso tormentato che per consolidarsi ha bisogno di molto impegno e coraggio. Si tratta di osare, di incamminarsi per sentieri nuovi, di rinunciare a sicurezze e abitudini. Questo è quello che bisognerà fare passata l’emergenza sanitaria, se vogliamo contrastare le ingiustizie che la pandemia non ha prodotto ma solo messo in evidenza. «Peggio della crisi c’è solo il dramma di sprecarla », ha detto papa Francesco, e ha ragione. Il rischio è desiderare il ritorno a una “normalità” che era molto malata ben prima dell’arrivo del virus. Anche le mafie sono insediate in mezzo a noi da prima della crisi, la presenza criminale non è a margini ma nelle fessure della nostra società, e il crimine trova sempre nuove occasioni di potere causa l’osmosi tra legale e illegale. Da anni “Libera” denuncia che le mafie non sono un mondo a parte ma parte del nostro mondo, e che la forza delle mafie sta fuori dalle mafie: nella rete di collusione e corruzione che permette loro di diffondersi. Oggi è necessario non allentare le misure di prevenzione e di controllo anticorruzione che qualcuno vorrebbe eliminare in nome della pur necessaria “deburocratizzazione”.

Lei è nato tra le montagne del Cadore ma presto è approdato nelle periferie metropolitane. Qual è il suo luogo dell’anima?

Se per luoghi dell’anima s’intende quelli in cui ritroviamo la nostra origine ma anche riconosciamo il nostro destino, di certo le Dolomiti: il mio primo orizzonte emotivo ed esistenziale, le mie radici e le mie ali. Poi certamente la “strada”, la parrocchia che mi affidò padre Michele Pellegrino ordinandomi sacerdote, per me il luogo di un Vangelo radicalmente vissuto nel tentativo di saldare il cielo e la terra. Luoghi dell’anima sono quindi tutte le realtà di accoglienza per le persone più fragili, ma anche i monasteri di clausura dove ho potuto pregare immerso in quel profondo silenzio che risuona di Dio.

Come prega don Ciotti?

Per me la preghiera è un grande desiderio di novità di vita, continuamente inventarsi cose nuove per rispondere ai bisogni delle persone, perché oggi è in corso un cambiamento epocale che impone di rimettere con forza la persona al centro. E poi attingo alle poesie e alle riflessioni degli amici che ho avuto il privilegio di incontrare, i complici di Dio, David Turoldo, Tonino Bello, gli amici di Romena, Carlo Maria Martini. Infine il Padre Nostro, la preghiera di Gesù, primo perché gli è nata dentro, spontanea, e poi perché sento bisogno che sia il Padre di tutti. Prendo le distanze da quelli che lo vogliono privatizzare, questo Padre.

Benedetto XVI, intervistato da un bambino che gli chiedeva come si immaginasse il Paradiso, rispose che lo desiderava abitato dai suoi genitori. Com’è il suo di Paradiso?

Non ne ho idea, anche perché mi confronto quotidianamente con i miei limiti. Spero di esserne degno… Invece ho una precisa cognizione dell’inferno terrestre. Delle atroci sofferenze di chi viene umiliato, scartato, perseguitato. Di chi nei propri simili trova non fratelli, ma aguzzini spietati o spettatori indifferenti e “neutrali”. Di chi ha ricevuto non abbracci e riconoscimento, ma giudizi e pregiudizi. Un’idea di Paradiso me la sono fatta quando ho visto una di queste persone rialzarsi e ritrovare la speranza dopo aver ricevuto affetto, comprensione, opportunità. Ecco, nella luce di certi sguardi illuminati dalla speranza ritrovata mi è sembrato di cogliere quella del Paradiso.

Dall’intervista di Lucia Bellaspiga su Avvenire di domenica 28 giugno 2020