Luce e Vita - Attualità

Con don Tonino Bello nel “porto chiuso” di Bari

Trent’anni fa, all’arrivo della Vlora con il suo carico di albanesi in esodo

Giovani migranti vloraAfa fin dal mattino. La gente ai bagni a spegnere la calura. Lui, don Tonino, a ulcerarsi per il dramma dei profughi albanesi nel “porto chiuso” di Bari, al secondo esodo di massa verso l’Italia.

Tristissimo. Il volto contratto. Non una parola di commento alle immagini che si accavallano nei Tg. Ecco la Vlora che vomita migliaia di giovani in fuga dal regime di Hoxha, che maledicono la miseria più nera e si azzuffano e si aiutano nella disperazione; che si fanno cercatori di futuro a rischio della vita.

Andiamo allo Stadio della Vittoria. perimetro di sconfitta. Andiamo al molo dodici del porto di Bari, scenario disperato. Lungo la litoranea, la spiaggia brulicante. Fra lo stadio e il porto, scampoli d’umanità in un clima infernale. In 20.000 ammassati – donne, giovani, bambini; onesti, ladri, violenti – in poche centinaia di metri quadrati.

Sul molo svengono per insolazione, per disidratazione: in molti cadono collassati a causa dei quaranta gradi che fanno ribollire perfino il manto d’asfalto sotto la suola delle nostre scarpe. Inerti vengono tirati per le braccia oltre il cordone militare come sacchi di patate. Un getto d’acqua rigorosamente non potabile, il capo accenna un movimento: «Indietro!», nella turba, a consumare la speranza residuale di un’accoglienza che non ci sarà.

«C’è il ministro della Protezione civile? C’è quello degli Interni (che poi lo insulterà: “A peste, fame et bello libera nos, Domine”). Desidero invocare accoglienza, un trattamento più umano: sono fratelli, sono sorelle», è il grido di don Tonino Bello. Ma i ministri non ci sono. Sono di Napoli e di Bari, sì proprio di Bari, ma non ci sono. Fra le autorità, solo il sindaco Dalfino: indaffarato, affannato, segnato. Non altri. Non ci sono neppure i medici al posto di pronto soccorso. Al limite della sopportazione i militari d’ordine pubblico. Lamentano il turno di otto ore ancora senza cambio. Disfatti i salpati dal porto di Durazzo. Persino l’occhio della Rai si vergogna a riprenderli insistentemente.

Circondato da un cordone militare anche lo Stadio della Vittoria. Parte dei migranti sono nel perimetro ovale del campo di calcio, come i cileni nel ’73, concentrati nell’Estadio Nacional. Alcuni al di fuori, contenuti da transenne e da militari di leva. Questuano un po’ d’acqua o di latte, qualche arancia. Frutti e cartocci vengono lanciati a distanza, come fossero animali in gabbia. La Polizia pronta a caricare al minimo sussulto, a ogni tentativo di margine valicato. Il limite deve tenere. Va evitato l’abbraccio tra i profughi e i pochi accoglienti.

Al di là del cordone militare, una bambina di sei o sette anni riconosce la sorella più grande. È in Puglia dal primo esodo. Entrambe vorrebbero varcare lo sbarramento disumano che le separa. Si chiamano a distanza, si fanno eco. Si lanciano baci e tenerezze con il linguaggio dei gesti. Accarezzano l’aria, l’una alla ricerca dell’altra. Si protendono, vogliono abbracciarsi. Lo dicono supplicanti nella loro lingua alla Polizia che non può capire, che non vuol capire. Lo ribadiscono al “prete” che ho al fianco: «Prete, lo chieda lei che porta la croce».

Di legno. Come quella su cui è salito Cristo. Come quella su cui sarebbe salito, di lì a qualche settimana, anche lui, don Tonino Bello, divorato dal cancro allo stomaco per somatizzazione degli eventi, per le sue viscere di misericordia.  Il “prete” supplica anch’egli: «Sono sorelle, lasciate che si abbraccino».

Come ricordo, don Tonino, quando ce ne siamo tornati in auto a Molfetta, nella tua auto; silenti, impotenti, “conflitti ma non sconfitti”.

«Lo so perché non parli – ti ho sollecitato per lacerare il silenzio -: perché vagheggi arche di pace che solchino il Mediterraneo a riunire la famiglia umana, e sperimenti boats people all’ancora, rifiutate e destinate a ripartire».

Mi hai risposto: «C’è stato un momento in cui ho visto meglio: non quella turba indistinta ma i volti dei giovani albanesi uno per uno. Anzi non proprio loro, ma per trasposizione i volti di chi li ha generati: le madri gravide al posto dei figli sul molo. E ho pensato: chissà quante carezze su quei ventri in attesa, quante tenerezze a levigarne la rotondità, quanti baci a benedire l’attesa; chissà quante parole d’affetto sussurrate su quelle cupole, perché arrivasse l’eco nel ricettacolo più profondo; e chissà quante scommesse, e quante ambizioni, e quanti progetti sul frutto di quell’amore gestante. Poi, che ne è? Lo scempio che costatiamo! Gemme sfogliate… petali al vento. No, non è giusto! Quei giovani vanno rispettati e amati uno per uno. Come se di ciascuno fossimo madre».

Altroché se lo ricordo, quel momento estatico a volti rivolti, in cui hai proposto la “maternità” come criterio di accoglienza del migrante. All’estremo opposto dei “porti chiusi”. Non solo lo ricordo, ma lo riferirò all’infinito.

Da allora m’interrogo se e quando metterà radici l’etica del volto, che è la tua profezia più forte: la scoperta dell’altro, uguale nella distinzione. Da allora mi chiedo se la fraternità e l’amore hanno “occhi di madre”. Se la femminilità non sia il valore da liberare per rigenerare la storia. Se la teologia non debba finalmente arricchirsi della riflessione su Dio madre… Natali che non possono tardare!

 

Renato Brucoli