Dalle origini al tardo medioevo

Molfetta (Melpa ?) – evolutasi da locus (sec. X) in civitas (sec. XI) e diventata feudo dei conti di Conversano –  fu eretta in diocesi con la conquista dei Normanni e con la creazione della metropolia latina di Bari e Canosa, istituita da Giovanni XIX (giugno 1025?). Sebbene sussistano dubbi sull’autenticità del documento papale, con esso l’arcivescovo Bisantio veniva investito della potestà di ordinare dodici vescovi suffraganei, posti a capo di altrettante sedi episcopali scelte fra diciotto località, tra cui Molfetta. La struttura e l’organizzazione della Chiesa locale assunsero la forma della città-diocesi. L’unico vescovo noto dell’XI sec., rimasto anonimo, intervenne alla consacrazione della nuova basilica di Montecassino (1° ottobre 1071) e venne menzionato nella Chronica monasterii casinensis fra i vescovi di Bisceglie e di Giovinazzo. Dalla prima metà del XII sec., la cronotassi episcopale appare pressoché ininterrotta e si conoscono i nomi di numerosi presuli insieme agli estremi cronologici dei loro episcopati.
Un documento del marzo 1162 (l’atto di fondazione del santuario cimiteriale extra moenia, dedicato alla Vergine Maria e ai pellegrini ‘martiri di Cristo’, lì sepolti e venerati) offre un quadro abbastanza eloquente della struttura diocesana di quell’epoca, dando notizia delle dignità e degli uffici svolti da alcuni ecclesiastici molfettesi. Compaiono l’arcidiacono-rettore dell’episcopio (perché è assente il vescovo Riccardus, esule per motivi politici e poi scismatico), l’arciprete, i due primiceri, alcuni sacerdoti, l’avvocato dell’episcopio, un sacerdote con funzioni di notaio (primiscriniaruns) e, infine, i chierici del collegio episcopale. La fondazione del santuario di Santa Maria dei Martiri, a cui si aggiunse la costruzione di un ospedale per i pellegrini, fissò una tappa significativa lungo la litoranea che congiungeva il santuario di San Michele sul Gargano con la basilica di San Nicola in Bari, proiettandosi, oltre l’Adriatico, verso la Terra Santa. Il santuario, eretto due miglia a nord della città, diventò meta di pellegrinaggi e nell’ambito diocesano si accostò alla cattedrale (dedicata all’Assunta) e alle altre chiese romaniche di San Pietro e di Santo Stefano. Altri poli della vita religiosa della diocesi furono i monasteri benedettini (con gli attigui ospedali) di San Martino (1083), San Giacomo (1139), Santa Maria Maddalena (ante 1316) e dei Canonici Regolari (Santa Margherita, 1182), e i conventi dei Francescani (San Francesco, XIII sec.) e degli Osservanti (San Bernardino, 1451); né mancò la presenza dei Templari (San Nicola, ante 1216), dei Giovanniti (San Primo, ante 1263) e dei Teutonici.
Nel 1211 Terlizzi aderì ad Ottone IV di Brunswick, sceso in Puglia, e così fecero anche altre città fra cui Molfetta. Tuttavia, due documenti sottoscritti dal vescovo Accarinus (1200-1218), riguardanti la medesima donazione, attestano il ritorno della città a Federico II. Nel 1208, inoltre, il vescovo aveva  sottoscritto come capo della cittadinanza – Bernardino, erede di Berardo dei Gentile, conte di Conversano e signore di Molfetta, era ancora minorenne –  il rinnovo dell’accordo commerciale fra la città pugliese e Ragusa, concluso sessant’anni prima. Accarinus partecipò al concilio Lateranense IV (1215). Fra i vescovi dei primi tre secoli di vita della diocesi dev’essere menzionato anche Risandus, personalità nota e stimata dai papi, i quali gli affidarono numerosi
incarichi durante il suo episcopato, il più lungo finora registrato nella storia della diocesi (ante 1222-1271). Altro personaggio di spicco è il vescovo Angelo (1280-1287), appartenente alla famiglia romana dei Saraceni, diramatasi nel sec. XII dalla famiglia di Innocenzo II, i Papareschi.
Durante il XIV sec., la città fu coinvolta nelle tristi vicende che interessarono il regno, causate dagli eventi bellici che ebbero per protagonisti gli Angioini, gli Ungheresi e poi i Durazzeschi e gli Aragonesi. Così come avvenne per altri centri della provincia, anche Molfetta si alternò nei vari passaggi dei domini feudali e spesso difese i propri diritti e privilegi. recuperando tal volta la demanialità faticosamente conquistata. La popolazione cittadina subì gli effetti della carestia (1340-1343) e delle pestilenze del 1348 e del 1363, come pure i danni provocati dalle guerre e dai fenomeni atmosferici che si abbatterono sul territorio. Molto verosimilmente questa serie di concause, insieme ad altre, provocò il depauperamento delle fonti storiche locali relative all’epoca, segnata da una frequente insicurezza e instabilità politica insieme alla del crisi economica e al decremento demografico. Nonostante la carenza documentaria, echi della persistente congiuntura giungono dagli episodi verificatisi in ambiente ecclesiastico. Una fazione cittadina, per esempio, dette l’assalto alla cattedrale e all’episcopio (1307 o 1308), provocando numerose sottrazioni e danni, fra cui la distruzione dei documenti (migliore fortuna ebbero gli archivi ecclesiastici di Giovinazzo e di Terlizzi). All’origine della vicenda sembra esserci stata l’insofferenza nei confronti del vescovo, il quale aveva fatto imprigionare un prete disonesto. Per altro, durante l’episcopato del francescano Paulus (1294-1307; nominato da Celestino V e confermato da Bonifacio VIII), si moltiplicarono i contrasti che opposero il vescovo ai religiosi presenti in diocesi, compresi i suoi confratelli.
Fino alla prima metà del Trecento si andarono progressivamente spopolando gli antichi monasteri benedettini e i loro beni furono dati in fitto o in amnistrazione a laici ed ecclesiastici della città. Nel 1344 la sede vescovile veniva tassata dalla Camera Apostolica per 176 fiorini (equivalenti a 35 once e 6 tarì) cioè un terzo del reddito annuo. Il valore della mensa vescovile, però, scese dalle 150 once del 1310 alle 105 once e 18 tarì del 1344, mentre i diritti pagati dalla città alla Corona erano passati dalle 21 once del 1285 alle 10 once del 1345. Probabilmente la riduzione dei membri del Capitolo al numero di ventiquattro, disposta nel 1386 dal vescovo Simone Alopa (1386-1401) può essere compresa nel contesto di crisi generale e di svalutazione dei beni ecclesiastici.
Dal Trecento si colgono tuttora tracce molteplici della pietà vissuta dalle popolazioni locali –  spesso coniugate con il culto mariano e dei santi –  che hanno tramandato un patrimonio religioso, artistico e culturale di non secondaria importanza per la storia religiosa della città. Nella prima metà del secolo una nuova canonizzazione episcopale –  seguita a quella dei pellegrini sepolti a Santa Maria dei Martiri –  fece assurgere al ruolo di patrono cittadino s. Corrado (1105?- 1126?), monaco cistercense. Questi, figlio del duca di Baviera Enrico Welf, detto il Nero, partì pellegrino verso la Terra Santa, ma lungo il tragitto morì e fu sepolto presso lo speco di Santa Maria ad cryptam di Modugno. Dopo l’abbandono dello speco da parte dei monaci che lo abitavano –  probabilmente entro il primo ventennio del XIV sec. – le reliquie di Corrado vennero traslate nell’antica cattedrale di Molfetta. Testimone della canonizzazione e del culto patronale è il messale pergamenaceo trecentesco –  decorato successivamente con preziose miniature da Giovanni Charlier (alias di Francia) –  contenente il proprium della messa del Santo e la data della sua festa (9 febbraio). Pressappoco alla stessa epoca risale la venerazione per l’icona di Santa Maria dei Martiri. La notorietà del santuario venne amplificata e si propagò oltre i confini cittadini anche grazie alla concessione della fiera, ottenuta dal re Ladislao d’Angiò nel 1399 e fissata all’8 settembre. Così, pure, sono segni eloquenti del culto dei santi orientali e occidentali la diffusione delle varie intitolazioni di chiese, cappelle e altari, insieme alla costruzione di edicole votive e alla fissazione dei toponimi, nonché l’imposizione dei loro nomi ai bambini battezzati e l’invocazione nei testamenti o negli atti pubblici e privati.
Si tenga conto, inoltre, che per il XIV secolo sussiste qualche incertezza nella cronotassi episcopale, tuttavia – all’epoca del Grande Scisma –  sembra che Molfetta sia rimasta sempre nell’orbita dell’obbedienza romana. Se durante l’episcopato del tranese Andrea de Rocha (1433-1472) gli agenti fiscali di Alfonso I d’Aragona riscossero la tassa di 86 ducati, 2 tarì e 10 grana, imposta per gli anni 1442-1446 alle concubine dei preti molfettesi, nello stesso tempo si accrebbe la fama del santuario di Santa Maria dei Martiri, visitato dal francese Anselmo Adorno (1470-1471), cavaliere del Santo Sepolcro reduce dalla Terra Santa, e poi dal francescano Agostino da Ponzone (1488), dal bresciano Virgilio Bornato e dalla regina Isabella del Balzo, oltre che essere indicato come meta di alcuni pellegrinaggi vicari provenienti dall’Umbria (1477-1478). Il 16 settembre 1472, il vescovo Giovanni Battista Cibo fu trasferito da Savona a Molfetta. Creato cardinale di Santa Balbina (poi di Santa Cecilia) da Sisto IV (1473), ritenne la sede di Molfetta e nel 1484 diventò Camerlengo del S. Collegio. Nel conclave del 14 agosto 1484 fu eletto papa e assunse il nome di Innocenzo VIII. Egli chiamò a succedergli il suo vicario generale, Angelo de Lacertis (1484-1508), l’unico vescovo dell’intera cronotassi ad essere certamente nativo di Molfetta. Durante l’episcopato di quest’ultimo, Innocenzo VIII concesse al santuario di Santa Maria dei Martiri l’indulgenza plenaria (1° giugno 1485) e rese il vescovo e la diocesi immediatamente soggetti alla Sede Apostolica (1° dicembre 1488). Il beneficio spirituale concesso dal papa (l’indulgenza poteva essere lucrata la domenica in albis e l’8 settembre) rese ancora più attraente agli occhi dei devoti il santuario molfettese. Durante l’ultimo trentennio del Quattrocento, esso si era arricchito di una copia fedele dell’edicola del Santo Sepolcro di Gerusalemme –  fatta costruire dal patrizio Francesco Lepore – la quale, insieme all’allestimento di un artistico presepe all’interno della chiesa, aveva trasformato il santuario – posto sul litorale a due miglia a nord della città – nella meta ideale da raggiungere al termine di un pellegrinaggio spirituale. Nel santuario, infatti, si era compiuto il trasfert di sacralità dei luoghi santi d’oltremare – diventanti nel frattempo difficili da raggiungere a causa del pericolo turco – e recandosi presso di esso, almeno in alcuni giorni dell’anno, i pellegrini potevano lucrare le medesime indulgenze legate ai prototipi santuariali. Un’ulteriore testimonianza significativa della pietà tardomedievale locale è l’ostensorio ‘parlante’, opera di argentieri napoletani (fine Quattrocento – inizi Cinquecento), posseduto dall’arciconfraternita del S.mo Sacramento della cattedrale di Molfetta e tuttora utilizzato per la processione del Corpus Domini.
Dalla metà del Quattrocento ai primi decenni del Cinquecento la popolazione cittadina passò da 464 a 765 ‘fuochi’, raggiungendo circa 3.000 abitanti. La rendita della diocesi era valutata per 800 fiorini annui e tassata per 76. Il tessuto ecclesiastico della diocesi, che territorialmente continuava a coincidere con quello cittadino, contava ancora sui due centri principali della vita religiosa locale (Cattedrale e Santa Maria dei Martiri), mentre il Capitolo si occupava della cura animarum. Di esso facevano parte soltanto i chierici nativi della città, i quali partecipavano della ‘massa comune’, amministrata dal Capitolo (chiesa ricettizia numerata). Altre chiese e cappelle erano disseminate all’interno delle mura o nell’agro circostante, sulle quali veniva esercitato il patronato regio e il patronato laicale. Alcune appartenevano a confraternite (Corpo di Christo e S. Stefano); erano presenti anche i nuovi insediamenti religiosi dei Celestini (Santissima Trinità, 1523), dei Cappuccini (prima al Pulo, 1536, poi il Santissimo Crocifisso, 1560), delle Cistercensi (Sant’Angelo, ante 1573), e di monaci basiliani (Santa Margherita, XV-XVI sec.), fuggiti da Corone a causa dell’invasione turca.

Luigi Michele de Palma