Nel giorno della festa dell'Assunta, un lutto ha colpito la cittadina di Molfetta. Si è spenta, dopo aver a lungo lottato contro un tumore, la scrittrice Gianna Sallustio Amato, nata nel centro pugliese nell'anno 1938. Laureata in Lettere presso l'Università degli Studi di Bari, era stata ordinaria di materie letterarie negli istituti d'istruzione secondaria di secondo grado pugliesi (tra cui l'ITC “Gaetano Salvemini” di Molfetta). Vedova di Cosmo Amato (la morte del marito le aveva ispirato versi laceranti), si era dedicata con amore ai figli e ai nipoti, sempre conservando quel suo spirito di pasionaria della cultura molfettese.
La sua produzione poetica e narrativa le ha fatto conseguire importanti riconoscimenti a livello internazionale, tra cui ci piace menzionare il primo premio per la narrativa “Città di New York” nel 2009 e il “Città di Istanbul” per la poesia nel 2010. Suoi testi sono stati oggetto di traduzioni in lingua francese e in serbo. Numerosissime le sue opere, che spaziano dalla saggistica (sulla figura di Rosaria Scardigno, ma anche sulle “stagioni pittoriche” di Franco Poli) alla poesia (citeremo, tra gli altri suoi libri, “Quest'allotria” e “Labirinti”), alla narrativa, genere cui si è dedicata con maggior frequenza negli ultimi anni, con peculiare interesse per la scrittura odeporica.
In Quest'allotria la Sallustio si collocava in posizione di aperto contrasto verso certe declinazioni del crocianesimo, che relegavano ai margini l'allotria, ossia ciò ch'è estraneo, alieno alla pura intuizione lirica. Eppure, per la Sallustio ciò che si voleva marginalizzare era l'eco dell'umano, in tutta la sua nitida tragicità. E quest'eco la scrittrice, per Barberi Squarotti “coscienza esemplare di una generazione a mezzo tra la delusione e lo slancio, faceva vibrare nella sua opera senza infingimenti, sempre protesa a scardinare le architetture di facciata artatamente elevate dalla nostra società. La Sallustio si era impegnata a lacerare quella “divisa di oca borghese / indossata con vigliacca perseveranza” da molte donne, per acquiescenza agli schemi socialmente imposti. Le sue opere sono spesso popolate da donne coraggiose, che sfidano le convenzioni e si affermano con la propria personalità, talora proprio grazie all'intrinseca forza di quella cultura e di quello spirito critico che la Sallustio si è impegnata per anni a diffondere nelle aule scolastiche. Lo stesso modo della poetessa molfettese di cantare l'amore era ben lontano da una mera, magari sdolcinata, effusione soggettivistica. Era vita della carne e del sangue: “mi tieni mi conti i piaceri / che prendi da me e descrivi / un corpo / il mio corpo come fatto d'amore per te” (“Sono solo pensieri”, in “Quest'allotria”).
Nella vita della scrittrice un momento fondamentale è stato rappresentato dalle esperienze di volontariato, compiute prima in Congo e successivamente in Guatemala, presso le missioni di Padre Tiziano Sofia, figura carismatica che la Sallustio ha tratteggiato con ammirazione in “Sango Mondele”, “Mojo mojo” e “Il padre bandido”. I proventi di questi lavori sono stati devoluti alle missioni e hanno contribuito alla costruzione di un ospedale in Congo, la Clinique de Saint François d'Assisi. Questo infaticabile impegno ha fatto guadagnare alla Sallustio in quelle terre l'appellativo di “Maman de l'hôpital”.
I mesi dedicati al volontariato sono stati descritti dalla scrittrice, che amava narrare di sé in terza persona, come preziosi e indimenticabili. Il ricordo di una messa 'spartana', celebrata sotto un mango nella missione congolese, con “un tavolino apparecchiato a umile e frugale altare”, assurgeva ad “alternativa salvifica” rispetto all'ateismo pratico che la scrittrice aveva potuto constatare in tante celebrazioni occidentali, cerimonie, non di rado, teatro di meri formalismi destituiti di significato. Nei suoi scritti, la Sallustio esaltava la “Chiesa del grembiule”, quella di don Tonino come di padre Sofia, spesso rappresentandone anche il contraltare, per esempio nell'icastica descrizione di insinceri “esercizi spirituali” o nel ritratto impietoso di una suorina, troppo presa a gingillarsi con i simboli dell'occidentalizzazione (il telefonino, la radiolina), per prestare attenzione alla “vecchia nera completamente nuda”, che “traballante sulle magrissime gambe” le passava accanto. Spesso nei suoi scritti vibrava lo sdegno per queste manifestazioni di apatia e indifferenza al dolore. O per quel fanatismo, figlio dell'ignoranza, che induce a compiere atti di empietà in nome della religione. Nel suo ultimo romanzo, “La sposa del sole”, un'altra scrittura di viaggio in cui si incastona la novella eponima, la Sallustio, adducendo a epigrafe della narrazione i versi lucreziani dedicati al sacrificio di Ifigenia, pennellava la delicata vicenda di Janita. A questa giovane creatura l'autrice donava persino il proprio nome e la raffigurava mentre, docile, quasi serafica (forse anche perché stordita dalle foglie di coca), veniva offerta in olocausto al dio vulcano Huascaràn per scongiurare un cataclisma sulla comunità andina. Nell'immagine del dolore straziante, tradotto in grido allucinato, della madre Urka, rassegnata a non poter cambiare il destino della dodicenne, Gianna Sallustio compendiava il proprio attonito sdegno, nella consapevolezza che spesso “tantum religio potuit suadere malorum”.
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