L’Italia affonda?

di Domenico Amato

Le parole che abbiamo ascoltato durante l’estate dai telegiornali e che abbiamo letto dai giornali sono state: crisi, default, disoccupazione, recessione, ‘ Tutti segni di una situazione sempre più preoccupante per questa nostra nazione che non riesce a trovare una strada per la risalita. Eppure in questo scenario così complesso che vede coinvolto il liberismo occidentale, il sistema delle banche e della finanza, gli Stati che vedono accrescere il proprio debito pubblico, abbiamo assistito dalle plance sparse per la città l’ennesima guerra demagogica dei manifesti che gridavano di aumenti di tasse: Vendola mette i tiket alla sanità; Tremonti alza le tasse agli italiani’ È una contrapposizione a cui assistiamo da anni, e nel frattempo l’Italia se ne va alla malora. Non solo, ma da anni si parla di riforme necessarie, ma nulla è stato fatto, a partire da quella bicamerale che non portò a nulla di fatto per le note rivalità.

Ora tre cose mi sembrano importanti sottolineare, riprendendo alcune cose già dette in passato dalle pagine di questo settimanale. La prima è la necessità ormai urgente e improcrastinabile di una riforma generale dello Stato. Ma questo non lo potrà mai fare una parte contro un’altra, non potrà farlo la destra da sola e non potrà farlo la sinistra da sola. Le regole quando si scrivono vanno condivise e da tutti, non da una parte contro un’altra. Nel 1946 quando l’Assemblea Costituente si accinse a scrivere la carta fondamentale degli italiani, la forbice ideologica era molto ampia e forse più grande di quella attuale, eppure due cose regnavano in quella assemblea: il rispetto dell’avversario politico, che non era il nemico da abbattere, e la consapevolezza di lavorare insieme per uno scopo comune dare all’Italia la dignità giuridica di una nazione al passo coi tempi. Oggi i tempi impongono il coraggio di riscrivere tali regole, ma queste devono essere condivise da tutti.

Una vera seconda repubblica ha bisogno di una vera seconda costituzione. Non illudiamoci, noi abbiamo vissuto dal 1994 in poi solo il crepuscolo della prima repubblica da cui non siamo mai usciti fuori.

Nel 1948, quando la Carta Costituzionale fu approvata e promulgata, la classe dirigente aveva uno spessore politico tale da poter giungere a quel grande evento che ha segnato il benessere e lo sviluppo nella nazione. E qui pongo la seconda riflessione riguardante la nostra classe dirigente. Qualche anno fa, forse una decina, dalle pagine di questo foglio un nostro redattore pose una seria riflessione sulla classe dirigente affermando che non bastava lo status di parlamentare per dare la patente di classe dirigente, era necessario che tale titolo uno se lo guadagnasse sul campo. All’epoca fummo rimbrottati da qualche politico locale, alla distanza bisogna ammettere che le ragioni per una riflessione di quel genere c’erano tutte. Se i politici non tornano a fare i politici, e cioè a occuparsi della vita del paese, a plasmarla, a indirizzarla, a guardare più avanti, a spendersi per il paese e non solo per la propria parte, non avremo una vera classe dirigente per il nostro Paese.

Infine, è bene non farsi più illusioni. Fare le riforme quelle vere, quelle strutturali, quelle condivise, significa entrare in una logica di sobrietà. E questa volta da parte di tutti i cittadini. Bisogna entrare nella consapevolezza che si devono abbandonare i privilegi, si devono scegliere stili di vita più sobri, si devono assumere atteggiamenti di piena responsabilità nei confronti dello Stato, delle istituzioni, delle regole. Significa insomma assumere una cittadinanza che veda ogni individuo responsabile per sè e per gli altri, senza furbizie e senza scorciatoie.

L’Italia non si salverà a pezzi: non si salverà il Nord lasciando affondare il Sud, ma non si salverà nemmeno con i privilegi di categorie o di caste. L’Italia si salverà insieme o affonderà insieme.