Un processo sempre più mediatico

di Luigi Sparapano

In diretta mondovisione la Corte d’assise d’appello di Perugia, ha sentenziato l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher. Rimbalzata in tempo reale da nord a sud e da est ad ovest del pianeta, la notizia suscita innumerevoli questioni su cui riflettere, ma qui non vogliamo indugiare sul fatto, volendo rispettare tanto i ragazzi scagionati e le rispettive famiglie, soprattutto quella di Raffaele, figlio della nostra terra, quanto la famiglia della povera vittima che rimane più sola, senza ancora la causa della sua morte.

Vale la pena invece soffermarsi sulla cornice mediatica cominciata a costruire quattro anni or sono, culminata con la sentenza e che prosegue e proseguirà con le proposte di libri e fiction preannunciate o già realizzate. E come in tutte le proposte televisive c’è un pubblico che si schiera, che si sente autorizzato a decretare colpevolezza e innocenza, con la stessa veemenza, se non maggiore, di come si schiera nei processi calcistici. É stata sensazione comune quella di percepire le fasi giudiziarie come rispondere alle esigenze mediali (non dimentichiamo il caso di Avetrana e tanti altri). Lo ha ammesso lo stesso pubblico ministero Giuliano Mignini dopo la sentenza: “È stata una Caporetto dell’informazione; mai vista una tale pressione mediatica, non si può andare avanti così”.

In altri articoli abbiamo già parlato del paradigma spectacle-performance, cioè dell’esigenza degli spettatori di non essere più solo tali, ma di entrare in scena e volerne a tutti i costi diventarne protagonisti, processo che la comunicazione digitale consente, anzi richiede. Così tutti si schierano e gridano la propria posizione: in Piazza Matteotti a Perugia echeggia il grido di vergogna, mentre in Piazza Vittorio Emanuele a Giovinazzo esultano giustamente i concittadini di Raffaele; su diversi siti si rincorrono i sondaggi e i giornali possono contare su leggeri aumenti di vendite che diversamente non avrebbero. Non ne parliamo dei talk show televisivi, a tratti accaniti morbosamente sui dettagli. Così lo spettacolo è completo e a niente sono valsi i richiami all’ordine e al silenzio del presidente della Corte, al rispetto della ragazza morta.

Qualcuno ha scritto, opportunamente, che “in questa brutta e tragica storia è difficile nominare la parola innocenza. E anche la parola giustizia”, per la scia d’interrogativi e di dubbi che rimangono sul tappeto; ne siamo convinti. Ma oltre a queste due parole ce ne sono altre due ormai innominabili: il silenzio e il rispetto, già, proprio ciò che manca soprattutto in queste delicate e tristi vicende; quelle che i mass media e i rispettivi protagonisti dovrebbero osservare, imponendosi il dovere deontologico di non oltrepassare gli spazi consentiti alla notizia, di non invadere quelli dovuti alla giustizia, di non violentare a tutti i costi la sfera degli affetti e delle relazioni interpersonali e familiari.