Può essere utile fare qualche riflessione, anche se la complessità della situazione richiede, forse, silenzio e prudenza.
Come uomo sono felice di un nuovo nato. È un messaggio di novità che irrompe nella vita quotidiana e la nascita di un bambino mi riempie di gioia. Se poi nasce dentro una storia d’amore, questa è veramente grande. Certo, tanti sono i gradienti di amore che caratterizzano le altrettante storie gonfie di affetto. Ma l’amore è nella sua essenza sacro. Siamo noi che lo copriamo di cenere. Sono, allora, veramente felice del giorno nuovo di Davide, Luciana, Tobia Antonio.
Come padre mi inorgoglisce il bisogno di fecondità che vive ogni uomo. Una constatazione antica, molto prima del cristianesimo, fa di quel bisogno l’essenza di una vita felice e dice che la genitorialità è il traguardo ultimo, più profondo del compito umano. E, visto che si può generare non solo secondo la corporeità, capisco chi è contento se attua questa fecondità. Ma come padre so pure che quel bisogno si arricchisce quando diventa la realizzazione di un’intesa profonda e di un progetto di vita non narcisistico, ma frutto di con-vivenza qualificata, che si proietta nel tempo con le aspettative di vita del nato.
Come padre sento questa tremenda responsabilità di consegnare un passato sicuro, chiaro e trasparente, dove le parole figlio, padre e madre non assumono il significato principalmente da un gioco sociale e culturale o da congiunture politiche, che non possono produrre mutazioni antropologiche. Invece, il bambino ha diritto di essere amato per se stesso prima del bisogno dell’adulto di amarlo. E amare è una condizione pesante. Un santo dei nostri giorni e tra le nostre strade diceva che “amare è voce del verbo morire”, perché orienta l’eros non in direzione egocentrica, ma verso il diritto del figlio di scegliere la propria esistenza senza precondizioni. E nascere per locazione, subendo subito un interessato e profondissimo trasloco, significa raccontare la propria esistenza partendo da un buio immotivato.
E penso a quella brutta storia del bambino venduto proprio a Molfetta molti anni fa, per trentamila lire, da una povera donna, poi condannata, a dei vicini di casa senza figli. Bisognerebbe ricordarsi di più la storia di Salomone quando dovette scegliere tra due donne che reclamavano la maternità di un bimbo. Egli, dopo aver chiesto chi avesse veramente partorito il bambino e sentito la scontata risposta di entrambe, propose di dividere il neonato in due. Il re lo consegnò alla vera madre che si rifiutò di vedere il figlio morire, a costo di darlo all’altra e di non vederlo mai più: “le sue viscere si erano commosse per il suo figlio”. Che ne è di queste donne?
C’è poi il racconto autobiografico di Camus in Il primo uomo. Egli ritorna nella sua terra di origine, va a trovare la tomba di suo padre che non ha mai conosciuto e si pone questa domanda: “Alla fine non si sa chi sia suo padre. Ma lui chi è?”
Chi è? Chi sono? Questa domanda è già diffusa in moltissime esistenze di bambini non riconosciuti, quasi per dire che razza di notte è quella capace di generare figli senza nome e senza volto, con un’eredità umana compromessa, con una nostalgia vietata al figlio che non può condividere con la genitrice il suo segreto, trascinando quella donna nella propria costruzione di uomo e di adulto, fatta anche di mistero che non ha moneta.
Come giudice minorile, e chiudo, faccio poi tre considerazioni, che partono dall’unica constatazione che con la genitorialità surrogata non si tratta di bambini nati abbandonati per povertà materiale o morale, ma volutamente “orfanizzati”, con un progetto premeditato di manipolazione e rottura della naturale filiazione. La prima considerazione: i bambini abbandonati, che nessuno vuole, sono proprio sfortunati, perché non riescono a intercettare le declamate storie d’amore che si propagandano tramite le reti massmediali e lobbies. La seconda: un giorno una donna molto anziana, nonna di numerosissimi pronipoti, venne in tribunale. Aveva vissuto una vita felice, ma era stata abbandonata alla nascita. Quasi alla vigilia della sua morte, chiese di conoscere le sue origini. Voleva “dare un titolo finale al capitolo principale della sua vita”. Pure i figli che l’accompagnavano, piangendo con lei, volevano avere notizie della propria nonna.
La terza: in parlamento stiamo assistendo al corposo movimento modernista che vuole consentire la nascita tramite l’utero in affitto. Ma contemporaneamente vuole abolire l’attuale diritto della partoriente a non essere nominata, insomma all’oblio della donna che non riconosce alla nascita suo figlio, perché questi ha diritto di sapere chi è sua madre.
Siamo in piena schizofrenia?