Nella precarietà la speranza

Onofrio Losito

Prendo in prestito il titolo del convegno nazionale dell’Ufficio per i Problemi sociali ed il Lavoro per sottolineare, nel delicato equilibrio delle problematiche nel mondo del lavoro, il compito fondamentale che credo la Chiesa è chiamata ad assolvere: indicare cioè la speranza, farsi prossima delle giovani generazioni, incastrate in una visione precaria della propria vita nella ricerca del lavoro e nella progettazione della loro famiglia.

É di pochi giorni fa’ infatti l’affermazione del nostro premier secondo il quale: “Il posto fisso non c’è più”. Pensando così di dissuadere i sindacati da inutili scioperi e cortei. Nei fatti in questi anni si è assistito ad una flessibilità del lavoro (attraverso licenziamenti e precarizzazione contrattuale) che certamente ha reso il posto fisso una grande conquista. Tutto ciò pur in presenza dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori che, seppure non sia contemplato direttamente nelle disposizioni del Jobs Act, (dovrà essere specificato nelle norme attuative, che arriveranno nel 2015) pare che, per il nostro premier, sia poco possibile il suo mantenimento.

Questo atteggiamento inflessibile ha trovato il contrasto dei sindacati, in particolare della Cgil che vede in questo smobilitamento del sistema di tutela dei lavoratori il pericolo concreto dei giovani che non sanno se avranno un lavoro in futuro.

É in atto uno scontro acceso fra due visioni del lavoro, più mutevole una, più rigida l’altra. Entrambe con la pretesa di garantire tutele al lavoratore. Certamente le polemiche sulla portata dei licenziamenti difficili, come sostengono gli industriali, sembrano però strumentali. Il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro 2013-2014 fa sapere che in Italia è già più facile licenziare che in Germania, ma anche in Francia e Olanda il grado di protezione del lavoro è superiore. Nella valutazione dell’Ocse, precisa il Cnel, il grado di protezione dei rapporti di lavoro in Italia nel 2013 risultava inferiore a quello francese e prossimo ai livelli riscontrati in Germania e Spagna. I lavoratori atipici o precari, diversamente dai lavoratori standard, scelgono e/o subiscono una ricorrente migrazione da una prestazione lavorativa all’altra (flessibilità in entrata e in uscita o, se si vuole, mobilità occupazionale), ma in questo contesto economico corrono il rischio di rimanere a lungo disoccupati (flessibilità in uscita e rigidità in entrata). Inoltre essi sono utilizzati e si offrono per ruoli e figure professionali che presuppongono un notevole spirito di adattamento e una spiccata versatilità (elasticità generale del mercato del lavoro); esibiscono, e viene loro richiesta, una maggiore disponibilità agli spostamenti territoriali a seguito della variazione di lavoro o di missioni previste da una stessa prestazione (flessibilità territoriale).

L’esigenza fondamentale dunque non è tanto quella di proteggere chi il lavoro ce l’ha già, ma quella di creare posti di lavoro soprattutto per chi non ce l’ha, secondo una sana e tutelata flessibilità, punto di partenza, ma non di arrivo, della personale esperienza lavorativa. I provvedimenti citati nel Jobs Act sarebbero in grado, secondo il Governo, di dare una svolta al sistema del lavoro, da anni bloccato, e di creare veramente occupazione. Ma si tratta di interventi di ampio respiro dei quali vedremo gli effetti solo fra qualche anno, mentre avremmo la necessità di giovarci dei risultati concreti di un piano ambizioso di riforme che, per ora, rimangono sulla carta. L’attesa di una possibile soluzione di questa emergenza lavorativa è tanta anche perché è sempre più evidente che esiste un nesso tra la disgregazione del lavoro e la frammentazione della vita delle persone.

Nel lavoratore precario, infatti, vita affettiva e vita lavorativa sono intimamente coinvolte in un vortice, perché i ritmi della seconda incidono ormai sempre di più sui tempi della prima e la condizionano pesantemente. La flessibilità di cui sopra accelera gli stili di vita, moltiplicandone gli impegni. I momenti liberi inaspettati diventano occasioni da cogliere al volo; le fasi della giornata al riparo dalle pressioni lavorative vengono ottimizzate sbrigando quante più cose è possibile (acquisti quotidiani, servizi e manutenzioni domestiche, piccoli svaghi con partner e/o figli, assistenza ai genitori).

In questo turbinio di azioni e sentimenti l’opera evangelica della Chiesa deve insistere su un’ accoglienza della precarietà non come sventura insuperabile, ma come una provocazione, un’occasione di conversione, uno spazio di scelte nuove.

Alcune risposte sono già possibili se si coglie appieno la fecondità espressa dal Progetto Policoro, sia nella formazione e motivazione evangelica al perché si lavora, sia nell’accompagnamento al lavoro, tramite l’esempio di maestri veri, nel come si lavora, sia nei segni concreti che parlano con i fatti, come risposta al cosa si lavora.