Quando la campana dell’emergenza non s’ode più, allora questa circostanza ci porta a riflettere per due motivi: o il pericolo è passato o il dramma e le sue conseguenze sono stati dimenticati. Nel nostro caso vale forse la seconda giustificazione e alludo all’emergenza umanitaria ed ecclesiale dei circa 150 mila cristiani sfollati in Iraq. Le diocesi interamente evacuate patiscono non solo a causa degli assassini “fondamentalisti” che hanno costretto la popolazione a fuggire privandola delle proprie case, chiese, negozi, imprese e campi, ma soprattutto denunciano il fatto di aver abbandonato queste genti a combattere una immane tragedia. Non dovrebbe essere lo Stato a provvedere per questi cittadini? No, perché ancora una volta sono le stesse chiese che hanno subito l’esilio a dover occuparsi e prendersi cura dei propri figli. Con un’indifferenza disgustosa e quasi criminale, le autorità civili rivolgono lo sguardo altrove come per dire: “pensateci voi”. I veri pastori, però, non hanno abbandonato il proprio gregge. Oggi, dopo 6 mesi dall’inizio della tragedia, gli sforzi sono sì più organizzati, ma le risorse scarseggiano soprattutto per le diocesi che sono state sradicate dalle loro terre: le istituzioni ecclesiastiche e le chiese rischiano di essere cancellate per sempre dall’antica terra dell’Iraq. Perciò, l’appello di oggi è per dimostrare che è urgente sostenere proprio quelle comunità e non chi sta bene. Di solito, noi che viviamo della normalità, ci annoiamo ad ascoltare le stesse drammatiche notizie in quanto la quotidianità dei fatti ci impedisce di reagire con lo stesso entusiasmo iniziale.
Anche se questo dramma ha minacciato tutti i cristiani in Iraq, la ferita più grave l’ha subita la provincia di Ninive dove si concentra la totalità dei battezzati. Sia la città di Mosul (capoluogo), che negli ultimi 12 anni ha visto diminuire di gran numero il popolo cristiano, sia le città e villaggi cristiani nella Piana di Ninive, oggi sono tutte zone abbandonate dai cristiani: non si verificava un evento simile da duemila anni ovvero dalla comparsa del cristianesimo in Mesopotamia. Basti pensare che a Mosul esistevano quattro diocesi: due cattoliche, Siro-Antiochena e Caldea, quella Siro ortodossa e quella Assira. Oggi i fedeli insieme ai loro preti e pastori sono fuggiti nella Regione Kurda dell’Iraq. Alcune città cristiane, come Qaraqosh che sono state durante tutte le guerre passate rifugio sicuro per i cristiani e non cristiani, con l’avanzata degli estremisti, oggi sono state completamente annientate. Se la gente che si è rifugiata in Kurdistan è costretta ad adattarsi alla contingente situazione, non vuol dire che vivano una vita normale. È pur vero che il numero delle famiglie nelle tendopoli è dimi-nuito ma i problemi essenziali permangono. Sfidando l’insidioso freddo dell’inverno del Kurdistan, i rifugiati sono costretti a trovare soluzioni per pianificare la loro vita quotidiana per proteggersi dal clima ostile: i carburanti sono scarsi, difficili da reperire. Tutto scarseggia in questa terra ricca però di petrolio. Le organizzazioni locali, soprattutto delle comunità e delle diocesi sfollate, si impegnano per offrire il meglio, ma non sempre si arriva a soddisfare le esigenze essenziali: pagare gli affitti delle migliaia di famiglie senza tetto, curare, procurare viveri e abbigliamenti adeguati per l’inverno. Nelle tendopoli o nei centri di accoglienza non esistono luoghi sanitari ordinari, sono stati invece allestiti ambulatori di emergenza: semplici stanzette prefabbricate o tende. Non esiste un servizio sanitario nazionale per provvedere, controllare, curare: si fa come si può con le prestazioni dei volontari e di personale della sanità sfollati. Il costo dei farmaci è alto soprattutto per le malattie croniche, per gli interventi negli ospedali statali e privati. E la scuola, l’istruzione dei bambini e dei giovani? Nella sola Qaraqosh c’erano circa 50 scuole e più di 1000 universitari. Ora sono stati istituiti posti provvisori per le scuole. I ragazzi frequentano le scuole esistenti negli orari scolastici lasciati liberi dagli alunni originari del luogo.
Dopo questa veloce disamina ora più che mai, noi come chiesa sentiamo il dovere morale di sostenere la gente dal punto di vista psicologico per aiutarla a sopportare l’enorme peso di un disagio non voluto. Non possiamo minimamente immaginare le sofferenze e le angosce di queste persone, anziani, adulti, giovani e bambini, per aver perso comunque, dopo una vita di fatica, ricordi, affetti personali e beni di valore ereditati! Questa è una storia definitivamente cancellata dove non esistono più diari, foto, ricordi, e dove la storia di una famiglia si riesce soltanto a raccontarla solo fino a una determinata generazione. Per questo popolo, il passato è stato cancellato e il futuro è decisamente incerto. Il popolo cristiano in Iraq aspira a riappropriarsi della propria terra e delle proprie case e spera di radunare le comunità per recuperare la vita della “comunità credente” credente e fedele al suo Signore.
*Ringraziamo don Giovanni de Nicolo per la corrispondenza con don Georges