Thérèse: per amore o per forza. Le reliquie di Santa Teresa di Liseux a Giovinazzo

di Raffaele Gramegna

Si torna sempre prima o poi a parlare di Thérèse. Personalmente la ritrovo spesso sul mio cammino, fin da quando in quarta liceo fu proposto a noi studenti un cineforum sul film di Ermanno Olmi “La leggenda del Santo bevitore” che qualche mese prima aveva vinto il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia, tratto dal romanzo omonimo di Joseph Roth, scrittore ateo. 
Non conoscevo Teresa di Lisieux, se non per vaghi ricordi. Nella mia fantasia di diciassettenne, quel nome francese sapeva di esotico, e a mio modo di sentire, nascondeva un universo. Il film fu una riflessione interessante su un modo umano di vedere la fede, soprattutto da parte di uno scrittore non credente come Roth. Il romanzo di Roth era autobiografico e questo è importante perché più tardi scoprii che Teresa aveva vissuto l’ultimo anno della sua vita in una specie di buio interiore, paragonabile ad una assenza di fede, assolutamente paradossale per un credente. Non avevo mai incontrato un santo che avesse vissuto una esperienza simile. 
La mia scoperta fu meravigliosamente coinvolgente quando scoprii la motivazione di senso di questa esperienza. L’ateismo, malattia del XX secolo, si affacciava alla fine dell’Ottocento, quando le invenzioni tecnologiche e la scoperta delle scienze neuropsichiatriche avevano lasciato all’uomo, insieme ad una ottimistica fiducia nelle sue possibilità, la certezza che Dio fosse ormai un mito da sfatare. 
Teresa visse questo problema sulla sua pelle e si sentì investita di una missione unica, quella di sedere alla tavola degli atei. Da cristiana autentica sapeva molto bene che per aiutare qualcuno bisogna condividere il suo mondo. In fondo l’amore è questo. Così ella capì che per portare la luce della fede agli atei, avrebbe dovuto condividere l’assenza di Dio che essi provavano. è una realtà assolutamente paradossale, ma impressionante e molto interessante. 
Lessi gli scritti autobiografici della Santa e dietro un linguaggio fatto di immagini “morbide”, trovai una potente visione della vita cristiana, come poche volte avevo incontrato. Mi resi conto che Teresa aveva raggiunto una intuizione meravigliosa: l’unica cosa che Dio accetta da noi è ricambiare il suo amore con l’amore. Ma non il nostro amore, il Suo. Non opere, non meriti, non impegno fatto di sforzi sovrumani per vincere peccati e difetti, ma semplicemente un abbandono filiale e fiducioso tra le braccia di un Padre immensamente misericordioso, a cui ogni uomo sta a cuore e che aspetta solo questo: darGli la possibilità di sollevare l’uomo al suo cuore. è l’amore di Dio la scala per arrivare a Dio, il suo “ascensore” come dice Teresa, senza fare scale difficili e pesanti, durante le quali ci si scoraggia e non si arriva mai. Dio si trova attraverso Dio. E in questo modo l’amore di Dio brucia in un istante tutte le fragilità. Agostino l’aveva chiamata in un altro modo più di mille anni prima: la Grazia. E mi accorsi che era davvero liberante!
Quando Giovanni Paolo II la nominò dottore della Chiesa nel 1997, ebbi la certezza che Teresa ci aveva visto giusto e che la sua “via” come ella stessa la chiamava, ora era un dono per tutta la Chiesa. 
Oggi Teresa viene a trovare la mia comunità. Le sue spoglie arriveranno nella mia parrocchia di S. Giuseppe a Giovinazzo. L’ho invitata. è stato come ricambiare un favore e rivedere una vecchia amica. Resteranno solo per un pomeriggio, non si poteva di più. Come una breve e fugace visita. Invito tutti soprattutto alla Veglia domenica 2 ottobre, rivolta essenzialmente ai giovani e presieduta dal nostro Vescovo.

(da: Luce e Vita n.31 del 25/9/2016)