Don Pietro Pappagallo, unico sacerdote fra le 335 vittime dell’eccidio nazista alle Fosse Ardeatine, è “Giusto tra le nazioni”.
L’importante riconoscimento, finora conferito a circa 22.000 persone, fra cui poco più di 400 italiani, è stato attribuito in giugno dall’autorevole Commissione costituita presso lo Yad Vashem di Gerusalemme, memoriale dell’Olocausto, per essere comunicato in luglio ai parenti prossimi di don Pietro.
L’attribuzione dell’onorificenza comporta l’iscrizione del nome del “Giusto” sul muro perimetrale dello Yad Vashem, e il conferimento di una medaglia e di una pergamena dallo Stato d’Israele ai parenti del “Giusto”, tramite l’Ambasciatore in Italia, nel corso di una cerimonia che si svolgerà probabilmente in autunno proprio a Terlizzi.
La definizione di “Giusto” rinviene dalla letteratura talmudica, e designa un non ebreo che, innamorato della vita umana, la salva a un ebreo a rischio della propria. La singola persona, per l’ebraismo, vale quanto l’umanità intera.
La qualità di “Giusto” è collegata alla Shoah e al coraggio di chi ha saputo sottrarre almeno un ebreo al genocidio. Richiama, dunque, un clima etico e un umanesimo in cui i principi di giustizia e amore del prossimo, saldamente ancorati alla fede religiosa o frutto di spiritualità laica, prevalgono, tutelando la vita in concreto.
Legate all’attualità, le dichiarazioni “a caldo” dei parenti di don Pietro.
«I tempi odierni li sto vivendo come tempi bui», dichiara il pronipote Giuseppe Pappagallo. «Sembrerebbe che i valori per cui zio Pietro si è speso – la solidarietà, l’accoglienza, la fratellanza, la giustizia, la libertà – che dovrebbero essere universalmente riconosciuti, vengano oggi messi in discussione, mentre zio ci ha insegnato che vanno affermati con coraggio anche nelle situazioni più difficili. Mi piacerebbe che intorno alla sua figura si ricostituisca un senso di comunità oggi purtroppo compromesso da continue contrapposizioni».
Anche Nicla Pappagallo si dice «fiera di don Pietro non solo in quanto terlizzese ma come cittadina del mondo». Aggiungendo: «Mi è di vero conforto pensare alle azioni concrete di zio Pietro, oggi che si combattono battaglie per tenere i crocifissi in classe senza curarsi delle persone crocifisse dall’indifferenza in mare o altrove».
L’attribuzione dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” a don Pietro Pappagallo, è stata invocata negli ultimi decenni da diversi storici e politici, esponenti del mondo ecclesiale cattolico e rappresentanti della comunità ebraica: una rilevante sequenza di personalità che va dal prof. Antonio Lisi al teologo don Gaetano Valente, da mons. Michal Jagosz prefetto dell’Archivio Liberiano in Roma al gesuita Piersandro Vanzan de La Civiltà Cattolica, dall’on. Nichi Vendola all’artista ebreo Georges de Canino, a Roberto Mamone segretario del circolo Anpi di Roma intitolato proprio a don Pietro, per finire con l’ex ministro della giustizia Paola Severino.
Il mio apporto è consistito nell’avviare, fin dal 2010, contatti sistematici con il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea con sede a Milano, abilitato dallo Yad Vashem a compiere le istruttorie dei candidati italiani al titolo di “Giusto”, e nel collaborare, insieme all’insegnante Antonio Lisi jr., con la dottoressa Sara Ghilad, prima assistente dell’Ufficio affari pubblici e politici dell’Ambasciata d’Israele in Italia.
Per la tanto attesa attribuzione del titolo di “Giusto” a don Pietro, il problema da superare non consisteva nell’assenza di richieste di proclamazione, fra cui anche la mia – richieste anzi ripetute e fondate sulla consapevolezza che il nostro si fosse effettivamente prodigato in favore degli ebrei – ma nell’individuare testimonianze concrete di assistenza finalizzate alla salvezza durante il periodo bellico, come richiede la norma di attribuzione dell’onorificenza.
Credo siano risultate decisive due testimonianze registrate dalla stampa periodica appena dopo la liberazione di Roma, cioè a pochissimi mesi dallo svolgersi degli eventi salvifici.
L’una di Ada Alessandrini, resistente cattolica che nel dicembre 1944 annota sulla rivista Mercurio di aver contribuito a salvare la vita di una piccola ebrea tedesca grazie al documento contraffatto rilasciato da don Pietro, con il quale riesce ad allontanare la piccola da Roma.
L’altra del giornalista partigiano Oscar Cageggi, amico di cella di don Pietro nel carcere di via Tasso, che il 29 giugno 1944 racconta in un’intervista concessa a Il Quotidiano di Igino Giordani, la preoccupazione del sacerdote terlizzese «per i suoi assistiti israeliti», il cui nome, benché salvati, risultava pericolosamente in alcuni appunti «di cui don Pietro era rimasto in possesso», poi distrutti grazie alla complicità e al consiglio del Cageggi.
Si tratta di persone che negli eventi della Resistenza “ci hanno messo la faccia”, e hanno rilasciato dichiarazioni talmente a ridosso dei fatti da poter essere facilmente smentite se non veridiche. Fonti che, proprio perché coeve e non contestate, a giudizio della speciale commissione costituita presso lo Yad Vashem, sono state ritenute equivalenti a quelle di testimoni viventi.
Questi richiami, da me propiziati a seguito di intense ricerche sul campo, vale a dire nei luoghi fisici calcati da don Pietro, con l’intento di recuperare il minimo frammento di memoria fra i superstiti, e con la consultazione sistematica di tutta l’emerografia successiva alla liberazione di Roma e d’Italia, credo abbiano fatto la differenza, e costituito lo snodo dell’intera vicenda.