Dal concilio di Trento al 1818

Nel XVI sec. le notizie sui vescovi si fanno più ricche e numerose, ma lo stesso secolo continuava a conoscere, anche in Molfetta, l’esperienza dell’assenza dei presuli dalla diocesi e il mercimonio dell’episcopato. Tutti i vescovi prestavano servizio presso la Sede Apostolica con diversi incarichi. L’umanista Alessio Celadeno (1508-1517), greco di nascita, ma italiano di adozione, fu Segretario papale. Morì a Roma durante il concilio Lateranense V. Gli succedettero due membri della famiglia Ponzetti, Ferdinando (1517-1518) e Giacomo (15 18-1553), zio e nipote: il primo fu cardinale ed entrambi svolsero l’ufficio di Tesoriere generale. Durante l’episcopato di Giacomo si ha notizia di un primo sinodo diocesano. Attraverso le note ‘cessioni’, gravate da pesanti pensioni, la diocesi passò al Custode della Biblioteca Apostolica Nicolò Maiorani (1553- 1566) e poi al nipote Maiorano (1566- 1597), il quale, per primo, osservò la residenza voluta dal concilio di Trento e dette inizio all’opera di riforma, ma, alla sua morte, fu eletto Offredo Offredi (1598-1605), Nunzio Apostolico a Firenze e a Venezia, che in sette anni di episcopato non visitò mai la diocesi.
Dei sette vescovi del Seicento, cinque appartenevano a ordini o congregazioni religiose: un carmelitano (Giovanni Antonio Bovio, 1607-1622) e un domenicano (Giacinto Petronio, inquisitore nel Regno, 1622-1647) provenienti dalla corte papale, due teatini e un benedettino di Venezia, Pietro Vecchia (1691-1695), già abate di Santa Giustina e vescovo di Andria. L’ultimo fu Domenico Bellisario de Bellis (1696 1701), chiamato a Roma come vice gerente. La provenienza dei vescovi rivela un notevole ritardo, rispetto alle altre diocesi, nel processo di meridionalizzazione dell’episcopato pugliese, iniziatosi nella seconda meta del Seicento. Anche se non appaiono vescovi spagnoli, gran parte dei presuli giunge dalla corte papale oppure dalle zone centro settentrionali della penisola, mentre l’epoca dei più aspri conflitti giurisdizionali fra Napoli e Roma segnava senza interruzioni la presenza in sede dei vescovi, strenui difensori delle prerogative rivendicate dalla Santa Sede, altrimenti sudditi devoti dei sovrani borbonici.

Il Settecento comprende soltanto quattro lunghi episcopati, fra i quali il più esteso è del cosentino Fabrizio Antonio Salerni (1714-1754). Gli successe Celestino Orlandi (1754-1775), abate della Congregazione dei Celestini, fratello di Giuseppe, vescovo della confinante diocesi di Giovinazzo: dopo quasi due secoli un pugliese tornava a sedersi sulla cattedra di Molfetta. Dalla fine del Cinquecento la popolazione della diocesi contava circa 8.000 anime, mentre il numero dei sacerdoti e dei chierici andava vieppiù crescendo, fino ad essere giudicato esorbitante e a richiedere, sul finire del Settecento, l’intervento dei vescovi per porre limiti alla pletora degli ecclesiastici.
Dalla fine del XVI sec. si susseguirono le iniziative dei vescovi per dar vita al seminario, che trovò una prima sede nel 1655, trasferendosi poi in altre due, per occupare infine un palazzo, opportunamente ristrutturato (1760-1763), attiguo all’episcopio. L’incremento demografico (6.800 anime nel 1671) e l’espansione urbanistica indussero ad una diversa impostazione della cura pastorale della popolazione, riflessa nei vari sinodi diocesani. Essa era affidata al Capitolo, che annualmente delegava alcuni suoi membri all’amministrazione dei sacramenti, ma nel 1663 il vescovo teatino Giovanni Tommaso Pinelli (1648-1666) istituì, col consenso del Capitolo, l’ufficio del canonico curato, attribuendo ad esso, in forma stabile, la cura delle anime. Un altro teatino, Carlo Loffredi (1670- 1691), nel 1671, senza nessuna opposizione del clero, costituì la seconda parrocchia (Santo Stefano), che raccoglieva la popolazione del suburbio. Sorsero i nuovi insediamenti religiosi dei Gesuiti (Sant’Ignazio e Collegio, 1610), dei Domenicani (San Domenico di Soriano, 1636), delle monache di San Pietro (1573, trasferitesi intra moenia dal monastero di Sant’Angelo e poi di Santa Maria de Principe; prima Cistercensi poi Benedettine cassinesi) e delle Domenicane (Santa Teresa, 1794). Si moltiplicarono pure le confraternite, gli oratori e le congregazioni di laici e di chierici. Per opera dei Gesuiti si diffusero le congregazioni mariane e nel 1647 fu fondato un conservatorio per orfanelle. Nella seconda metà del Settecento si verificarono ulteriori mutamenti nella compagine diocesana, determinati da vari fattori. A partire dal 1767, con l’espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli e la successiva scomparsa delle comunità religiose a causa delle soppressioni governative, si rese urgente un nuovo assetto dell’organizzazione diocesana e delle sue strutture, in parte avviato da Orlandi e realizzato dal successore Gennaro Antonucci (1775-1804). Questi, nel 1785, trasferì la Cattedrale, il titolo parrocchiale, l’episcopio e il Seminario nella chiesa e nel collegio dei Gesuiti, posti nel borgo, all’interno della nuova cinta muraria. Soppresse, inoltre, la parrocchia di Santo Stefano e distribuì il suo territorio e la sua popolazione fra la parrocchia della nuova Cattedrale e la nuova parrocchia di San Gennaro, mentre fece diventare il duomo nuova parrocchia, intitolata a San Corrado, attribuendole la giurisdizione dell’antica parrocchia Cattedrale. Fra i membri del clero furono numerosi i sacerdoti elevati all’episcopato – fra questi il card. Nicola Riganti (1744-1822). vescovo di Ancona – mentre si distinsero per la loro valenza culturale l’abate Ciro Saverio Minervini (1734-1805) e l’arciprete Giuseppe Maria Giovene (1753-1837).
I tre secoli dell’età moderna furono ricchi di fermenti religiosi, tanto che i riflessi spirituali di quegli anni si colgono anche nella vivacità artistica e culturale di cui fu protagonista la comunità locale. Alcuni suoi esponenti, infatti, si resero meritevoli del ricordo e della venerazione dei fedeli, per esempio, il fondatore del convento dei Cappuccini di Molfetta p. Giacomo Paniscotti (1489-1561), dal popolo appellato col titolo di beato, e fra’ Francesco da Monopoli (‘ Molfetta 1590). Nello stesso tempo, però, i vescovi – tramite l’inquisizione – dovettero intervenire per reprimere alcune pratiche magiche, diffuse e persistenti fra la popolazione, e correggere taluni costumi inerenti la prassi dei matrimoni, non ancora conformi alle norme del concilio di Trento.
Gli edifici di culto si moltiplicarono sia per la devozione dei privati sia per l’impegno delle confraternite, talvolta rinate o costituite anche per effetto delle missioni popolari e dedite all’esercizio delle opere di misericordia. Gli stessi sodalizi, inoltre, insieme ai vescovi, al clero, ai religiosi e ai laici, si fecero committenti di opere d’arte di notevole valore e sempre in relazione con culti particolari, con le pratiche devozionali, con voti pronunciati o con grazie ricevute. Significative sono le statue lignee cinquecentesche di scuola napoletana, utilizzate dall’arciconfraternita di Santo Stefano di Molfetta per la processione dei misteri dolorosi nel vespro del Giovedì Santo. La cattedrale, le chiese conventuali e parrocchiali, gli oratori confraternali e le cappelle private furono impreziositi dalle tele di noti pittori come – per citarne solo alcuni – Gaspar Hovic, Bernardo Cavallino, Corrado Giaquinto, Fedele Fischetti, Vito Calò e Carlo Rosa. Nella nuova cattedrale operarono l’architetto barese Giuseppe Gimma e i fratelli Tabacchi, stuccatori lombardi. I luoghi di culto, infine, si munirono di organi a canne di scuola napoletana, talvolta monumentali, e fino a tutto l’Ottocento, specialmente nella cattedrale, perdurò l’antica tradizione musicale, canora e compositiva, di cui Gaetano Villani (XVII-X VIII sec.), Antonio Pansini (1703-1791) e Vito Antonio Cozzoli (1777-1817) furono gli esponenti più noti e apprezzati.