Il sottile confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia

di Luigi Renna*

 Il dibattito sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” si è particolarmente intensificato, da circa dieci anni, a motivo delle sempre crescenti possibilità della medicina di assistere i malati terminali o in coma e del conseguente timore che tali interventi assumano le caratteristiche di un accanimento di terapie che prolungano la vita e le sofferenze senza dare opportunità di guarigione. Il quadro giuridico in cui tale dibattito e tali considerazioni si inseriscono sono di natura internazionale e nazionale e meritano di essere richiamate brevemente. I paesi membri del Consiglio d’Europa nel 1997 hanno firmato ad Oviedo la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo le applicazioni della biologia e della medicina; all’articolo 9 di tale convenzione si stabilisce che “i desideri precedentemente espressi da un paziente riguardo ad un intervento medico, devono essere tenuti in considerazione, anche se il paziente, al momento dell’intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà”. La convezione pone l’accento quindi sul valore di autodeterminazione del paziente. La Costituzione italiana, dal canto suo, già stabilisce all’articolo 32, il diritto al rifiuto delle cure; la dichiarazione di principio necessita tuttavia di una legge chiara che stabilisca quali tipi di cure si possono rifiutare e chi ha il diritto/dovere di manifestare la volontà del paziente quando questi non fosse più in grado di farlo.

Nel tentativo di dare una soluzione giuridica si è aperto un dibattito culturale, ci sono state scelte eclatanti (Welby ed Englaro) e meno eclatanti (il quotidiano impegno per le cure palliative nei tanti hospices italiani), e numerose proposte di legge sulle dichiarazioni anticipate.

Cosa è in gioco a proposito di questo dibattito?

Credo tre realtà molto delicate: il rapporto medico-paziente che si concretizza nel consenso alle terapie; la linea di confine tra rifiuto dell’accanimento ed eutanasia; la questione del rapporto tra convinzioni personali in rapporto alla morte e alla vita e legislazione.

Il rapporto medico-paziente ha subìto nel tempo una notevole evoluzione: da quello paternalistico nel quale il medico si prendeva cura del malato senza chiedergli nulla, ad una nuova cultura dell’autonomia in cui un forte ruolo ha giocato il “Codice di Norimberga” che, in seguito al processo a medici criminali nazisti ha dichiarato che “il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente imprescindibile”. Tale principio del consenso del paziente potrebbe essere portato all’esasperazione se arrivasse a richiedere al medico qualsiasi tipo di intervento, anche l’eutanasia. Tale rischio è già una realtà in molte legislazioni: non snatura forse questa richiesta la stessa missione del medico, chiamato ad agire secondo scienza e coscienza? Il tema dell’autonomia andrebbe invece concepito in modo relazionale e sarebbe necessario parlare di educazione all’autonomia e di autonomia relazionale, nella quale c’è un dialogo che continua anche attraverso le dichiarazioni. Il Comitato nazionale di Bioetica così si esprime a proposito: “è come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte”.

Quale linea di confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia? La possibilità di introdurre nelle dichiarazioni la richiesta di sospendere non solo le terapie che sono necessarie alla guarigione, ma anche l’ alimentazione e l’idratazione artificiale, non sarebbe altro che l’introduzione di una forma di eutanasia: la persona morirebbe non per il male di cui soffre, ma di sete e di fame. Il nutrire non costituisce un trattamento medico, ma un normale trattamento equivalente a girare regolarmente un paziente o fornirgli delle frizioni di alcool. Si tratta non di guarire, perché il cibo non guarisce, ma di continuare umanamente a curare fin quando la persona è in vita. La persona può rifiutare cure che ritiene ormai sproporzionate e gravose rispetto alla sua condizione, ma non può chiedere una forma di “eutanasia passiva” nella quale lasciarsi morire di fame e di sete.

E i casi di stato vegetativo permanente? Questi casi non possono percepire la nutrizione artificiale come gravosa, ed hanno una comprensione della realtà certamente minima, ma che ci sfugge nella sua totalità; in ogni caso anche per loro la sospensione di alimentazione ed idratazione sarebbe una forma di eutanasia.

Cosa deve assicurare una legge? Semplicemente il consenso di una maggioranza o il bene delle persone e della società? Non ci rassegniamo all’idea che il bene comune sia la somma dei beni individuali, a discapito di un bene che sia quello dell’uomo nella sua integralità, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. In una società pluralista come la nostra va ribadito il valore della persona nei vari stadi della sua esistenza e vanno posti dei principi, del resto già presenti nella nostra Costituzione, che permettano di vivere civilmente. A volte entriamo in contraddizione: vogliamo emigrare in altri paesi perché su alcune questioni etiche hanno una legislazione più permissiva e poi “tiriamo per la giacchetta” la nostra Costituzione che è un capolavoro di umanità e civiltà. Si tratta quindi di guardare alle dichiarazioni di trattamento non come ad un “cavallo di Troia” che qualcuno forse vuole fare entrare nelle nostre città per espugnarle sul fronte della dignità dell’uomo, anche del morente, ma di approcciarsi ad esse in maniera civile, con il dibattito, con la ricchezza della propria cultura cattolica e laica, e riprendere ad educare. Una cultura rispettosa dell’uomo può venire solo da una buona educazione che ognuno nel suo ambito deve fare, parlando di vita e di morte, di dolore e di senso, di accanimento terapeutico e di cure palliative.

Solo l’educazione salverà la nostra civiltà.

*Rettore del Pontificio Seminario Regionale di Molfetta e docente di teologia morale