Molfetta e le sue molteplici anime

di Gianni Antonio Palumbo

Una città dai mille volti e dalle molteplici anime, con le oleografie del romanico Duomo di San Corrado e delle notturne lame di luce a fior dell’acqua da un lato e dall’altro il “mare di piombo”, ferito dall’eredità dell’iprite, dalle ingenti quantità di metalli pesanti e dall’infinita querelle del nuovo porto commerciale, per il quale si attendono ancora le debite opere di bonifica.
Questo comune che sorge sulla sponda adriatica, con il suo clima mite e i suoi scorci di stupefacente bellezza, vanta un’antichissima tradizione, cui fanno eco i ritrovamenti nel sito archeologico del Pulo e il borgo antico, con il primo nucleo urbano nell’Isola di Sant’Andrea e le architetture che si susseguono in un’area dalla caratteristica conformazione a spina di pesce.
Uno scrigno di gioie la Città vecchia, ma in verità l’intero spazio circostante accoglie il viaggiatore con sguardo sorridente: la Cattedrale, in cui, tra mille tesori, spicca l’Assunzione di Maria; la Chiesa del Purgatorio, con i simulacri di Giulio Cozzoli pronti a rammentare il mistero del dolore per le vie del centro; l’Episcopio; il Museo Diocesano, dalle stanze onuste di opere d’arte; la Chiesa di Sant’Anna, dove presentiamo i nostri bambini al Signore, nell’augurio di un sereno cammino nella fede; il tempietto neoclassico del Calvario, dalla forma a mo’ di “guglia gotica”…
Pur conservando in grembo questi tesori, Molfetta è una città che stenta a realizzare la vocazione turistica cui sarebbe naturalmente destinata; questo accade a causa dell’incuria, che tuttora continua in molti casi a verificarsi, verso il patrimonio artistico e il decoro della bellissima cittadina, ancora oggi, purtroppo, deturpata dall’inciviltà di molti. Ribattezzata “città della pace”, ha conosciuto la primavera dell’anima durante l’episcopato di Mons. Bello, la “stagione della fioritura”, come fu definita durante le esequie di don Tonino. 
Un tempo questa era una terra di marittimi, che nella pesca e nelle attività legate alla cantieristica navale (si pensi alla presenza di maestri d’ascia o di corderie) aveva individuato le professioni più adeguate alla propria “humus”; oggi, tuttavia, la cittadinanza, non di rado piagata da tragedie del mare come quella del “Francesco padre”, assiste all’inarrestabile declino di tale settore. La Manchester delle Puglie oggi sembra affidare le proprie ambizioni di grandeur alla zona industriale (nella quale non sono mancati, purtroppo, sinistri episodi di morti bianche, come nel caso della Truck Center) o al “porto delle nebbie”, com’è stato definito, e all’ambito commerciale. Il Fashion District, concepito architettonicamente come un reame delle fiabe o una moderna terra di Bengodi, si propone come paradiso dello shopping e, accanto al Centro commerciale Ipercoop-Mongolfiera, attira una clientela variegata e proveniente da tutto il territorio barese. Eppure, per i giovani, la realtà resta quella di una deprimente carenza d’offerta occupazionale, al punto che a nuova frontiera dell’impiego sembrano ormai candidarsi i call center o le molteplici declinazioni di un precariato professionale assurto quasi a condizione ontologico-metafisica. Le valigie non sono più in cartone, ma in pelle (o magari in ecopelle), però la necessità dell’emigrazione, alla ricerca di una collocazione lavorativa più consona al proprio percorso di studi, continua a rappresentare non di rado una scelta quasi obbligata per molte giovani menti.
Uno degli aspetti più significativi a connotare questa città è il rigoglio di esperienze intellettuali valide, che si dispiegano in tutti i settori della creatività, dalle arti figurative alla letteratura, dalla musica alle sofisticate creazioni tecnologiche.
Patria di personalità del calibro del pittore Giaquinto e del meridionalista Gaetano Salvemini (due nomi tra i molti illustri che questa terra ha generato), in passato teatro di straordinarie esperienze culturali (il Liceo, all’epoca dell’insegnamento di Tommaso Fiore, fu da Benedetto Croce definito la “scuola di Socrate”), Molfetta è una fucina di talenti. Questi, tuttavia, non sempre, con l’eccezione di casi come il grande Riccardo Muti, sono compensati dalla gloria nazionale, anche in virtù del fatto che gli abitanti di questa città le restano in qualche modo magicamente legati, abbarbicati come l’ostrica allo scoglio, e spesso la scelta della vita provinciale li condanna a una marginalizzazione rispetto ai macrofenomeni dell’industria editoriale e della critica d’arte. Eppure la Sala dei Templari, il Museo Diocesano, gli atelier brulicano di vitalistici fermenti e basta sfogliare pubblicazioni come La poesia in Puglia di de Santis-Giancane, la letteratura di Ettore Catalano o Les barisiens di Daniele Maria Pegorari per constatare quanto i nostri artisti siano noti e apprezzati a livello non solo regionale.
Molfetta vive con estrema intensità il rapporto con i momenti fondamentali dell’anno liturgico, anche se talora l’elemento antropologico finisce con il prevalere sull’aspetto spirituale. Eppure, a dispetto delle rivalità tra confraternite e dell’assenza di silenzio che talora scandisce la discesa dei simulacri tra le vie della città, lo sguardo innamorato del fedele finisce sempre con l’indugiare sul viso serafico e incantevole della Signora dei Martiri o con il commuoversi allo strazio di una Pietà dall’innocenza bambina, che la tragica e composta bellezza del Dolor sottolinea, inchiodandoci al mistero dell’umana e divina sofferenza, il più imperscrutabile tra gli interrogativi che da sempre sollecitano le nostre meditazioni.
E così, nelle sue molteplici anime, nelle sue infinite contraddizioni, questo santuario di luci e cromie festanti appariva a Cesare Brandi, e appare ancora a noi oggi, una città simile a “quelle che tengono su un vassoio certi Santi avvocati”, deliziosa miniatura la cui bellezza deve essere custodita e preservata dagli urti della Storia.

© Luce e Vita n.6 del 07/02/2016