La data del 20 aprile, ogni anno, dal 1993, è segnata in grassetto nel nostro calendario. È il giorno del dies natalis di don Tonino Bello, pastore di questa chiesa, la cui memoria è sempre viva e il cui magistero continua a ispirare.
Come abbiamo fatto sempre, da allora, anche quest’anno ci siamo riuniti in preghiera nella cattedrale per celebrare l’Eucaristia. Perché l’Eucaristia è il momento nel quale ci sentiamo maggiormente sintonizzati con lui, ed è la scuola dove si impara a narrare la vita nel segno dell’amore.
Sappiamo bene quanto l’Eucaristia fosse il centro della sua vita, come peraltro dovrebbe essere per ogni cristiano. Essa è fonte di vita, di vita interiore. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue – dice Gesù – ha la vita» (Gv 6, 54). È il segno supremo della donazione mediante il quale Gesù si fa pane, nutrimento, si fa comunione, condivisione, solidarietà; è il gesto che si fa progetto di speranza e di umanità nuova. L’Eucaristia è il ‘luogo’ dove si impara la lezione della “lavanda dei piedi”; dove si pregusta la bellezza della “convivialità delle differenze”.
C’è un lacerante stridore e dolore tra queste immagini tanto care al linguaggio e alla sensibilità di don Tonino e le vicende drammatiche di questi tempi e di questi giorni, soprattutto quelle riguardanti gli immigrati. I ‘picchi’ delle tragedie vengono superati di giorno in giorno. E quello che amareggia maggiormente è l’atteggiamento del nostro continente, di antica matrice cristiana, che sembra per la più parte rimanere inerte. A nulla valgono i ripetuti appelli di papa Francesco. Sembra caduto nel vuoto il monito del Pontefice a Lampedusa circa la “globalizzazione dell’indifferenza” e l’“incapacità di versare lacrime”.
Di fronte a fatti di una gravità immane, spesso, e forse anche consapevolmente, si specula; ci si ritrova gli uni contro gli altri, in una frastornante e inconcludente discussione. Ognuno presume di avere la soluzione giusta per risolvere alla radice i problemi. È un teatro raccapricciante che di volta in volta si mette in scena. Mentre la povera umanità umiliata, ferita e sanguinante sprofonda negli abissi.
Ci rendiamo conto, carissimi, che il mysterium iniquitatis non rimane sempre nascosto, ma trova vie sempre nuove per emergere, anche quelle più impensate, per seminare il male e fare le sue stragi, anche le stragi dell’insensibilità e aridità dei cuori. E allora? Allora ci dobbiamo convincere che per far fronte a tali minacce e cercare di gettare semi di speranza in una umanità desertificata, bisogna rieducare il cuore, e per far questo, occorre quella pedagogia dei gesti, piccoli e grandi, personali e comunitari, che determinano un cambio di rotta.
Per noi cristiani si tratta, in fondo, di essere fedeli alla direzione del cammino segnata dal santo vangelo. È la rotta seguita da don Tonino. La sua testimonianza trasuda di Vangelo. Anche qui, ci sono tanti di quelli che lo citano, lo rievocano, lo esaltano, lo ricordano, magari con aneddoti inediti e con esperienze personali. Non mancano neppure quelli che presumono di dare la giusta interpretazione agli insegnamenti dell’amato vescovo. Sarebbe deleterio se, trascinando il povero don Tonino di qua e di là, noi smarrissimo il senso di una testimonianza così preziosa. Parole simili a quelle di Gesù, nella pagina del vangelo di oggi, potremmo immaginarle anche sulla bocca di don Tonino. Gesù dice: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6, 26-27). Il cibo di cui il pane è segno, lo sappiamo bene, è fare la volontà di Dio. E la volontà di Dio è che ognuno abbia Gesù Cristo come “norma” di vita. Don Tonino, con la sua testimonianza ha dato spessore a questo segno. Il segno che egli ci ha dato è quello stesso di Cristo, Redentore dell’uomo; segno che tradotto in una parola si chiama Amore, espresso nella duplice direzione, verso Dio e verso l’uomo.
Si può dire, inoltre, che il tema in vista del Convegno ecclesiale di Firenze: In Cristo, il nuovo umanesimo, don Tonino lo abbia non solo intuito, ma anche pienamente vissuto, con lungimiranza ed energia profetica. D’altra parte, chi vive davvero il Vangelo è sempre attuale, è sempre contemporaneo, anzi anticipa i tempi nuovi. Lo troveremo perciò accanto a noi don Tonino, e sarà anche il migliore omaggio che possiamo rendergli se adotteremo il medesimo criterio che ha ispirato le sue scelte, i suoi comportamenti e il suo stile di vita.
Oggi, sicuramente non sarebbe rimasto insensibile di fronte alla devastante “cultura dello scarto”, alle scene apocalittiche dei profughi; sarebbe inquieto di fronte al massacro di tanti cristiani solo perché tali; non rimarrebbe fermo di fronte ai desolanti cimiteri di acqua, così come di fronte a tragedie come quella dell’altro giorno su una delle tante imbarcazioni, dove poveri hanno ucciso altri poveri perché di religione diversa.
Carissimi, papa Francesco ha benedetto la croce costruita con due assi di legno prese dai barconi arrivati a Lampedusa con il loro carico di dolore e speranza. La croce dei profughi di Lampedusa ora girerà l’Italia, accolta da chi ne farà richiesta, in una grande «staffetta spirituale». Speriamo di poterla avere anche tra noi. Per non dimenticare. Nella speranza di riscoprire la croce come simbolo del dolore umano e ritrovare la bellezza e il valore che, con la risurrezione, comunica vita e non morte. Trovo un ideale legame tra questo segno e il Crocifisso che noi conserviamo, ormai gelosamente, nel duomo antico della nostra città, accanto al quale è stata apposta l’iscrizione “collocazione provvisoria”; espressione nella quale don Tonino ha intravisto la risurrezione e con essa l’alba di un mondo nuovo. È lo sguardo dell’ottimismo della fede e dei santi. Chiediamo, perciò, nella preghiera a don Tonino, Servo di Dio, proprio questo sguardo.
Molfetta, 20 aprile 2015
+ don Gino