Stavolta abbiamo voluto sporcarci le mani. Non perché sapevamo già che la povertà esiste; ma perché volevamo conoscerla e sorreggerne il peso insieme.
É stato facile. Anzi, è stato bello. Alla Caritas di Roma i poveri sono tanti e apparentemente senza voglia di parlare. Noi arrivavamo lì e loro non ci guardavano, troppo attenti a controllare la quantità versata nel piatto. Noi li osservavamo invece. Quando arrivavano, ci preparavamo a riceverli con la massima naturalezza. Fra le varie mansioni che ci spettavano, il servizio mensa è stato quello che ci ha permesso di dare una forma più definita a quei volti e di vederli più da vicino. Si trattava di passare fra la gente e renderci utili. E minuscoli miracoli si consumavano quando da un distratto “Portami dell’acqua fresca”, ci chiedevano di sederci a chiacchierare un po’. Ascoltavamo. Storie, a volte assurde, che ora ci portiamo dentro. Ci sentivamo impotenti davanti a un eccesso di rabbia o di rassegnazione; o emozionati per la stessa ragione o ancor di più, per quella spiazzante allegria di alcuni che, sorridendo, chiedevano a noi cosa sognavamo.
A chi ci domandava dove andassimo in ferie, rispondevamo «beh, le nostre “ferie” sono queste!», beccandoci un sonoro «ma voi siete matti!».
Ho chiesto a un uomo quale fosse la differenza fra il mio Dio e il suo. E lui mi ha detto in quel suo italiano tutto personale: «Ragazza, facciamo finta di dover arrivare entrambi alla stazione Termini. Io prenderò il tram e tu l’autobus. Alla fine ci ritroveremo là». A questo non eravamo abituati. E in certi momenti ci stancava. Ma se la stanchezza prendeva il sopravvento, bastava alzare lo sguardo, e la frase di don Liegro (cui è intitolata la mensa) “Non c’è amore senza condivisione” ci ricaricava. Eravamo partiti con il timore di un’esperienza “forte”. Tornavamo invece con la tristezza di aver lasciato tutta quella complicata gioia; coscienti che finché a qualcuno mancherà il necessario, il nostro superfluo peserà un po’ di più.