Se parlasse la città…intervento dell’AC diocesana alla marcia per la pace

La Presidenza diocesana Ac di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo, Terlizzi

Lo scorso 31 dicembre, la 48esima edizione della Marcia nazionale della Pace si è svolta a Molfetta, come ventitré anni fa, quando il Vescovo don Tonino Bello era appena tornato da una Sarajevo assediata, nella Bosnia in guerra. I semi di quella stagione per un impegno a costruire la pace in modo feriale, lavorando nel campo dell’educazione e della formazione con un deciso coinvolgimento nel sociale, hanno in qualche modo portato frutto.
 
Da diversi anni l’Azione Cattolica di questa diocesi si spende per la cura, la promozione e la difesa del bene comune nelle nostre città, con una serie di campagne unitarie, rivolte al territorio e portate anche nelle scuole, in rete con altre associazioni e realtà ecclesiali e non.
Le nostre campagne sono anzitutto percorsi formativi ed educativi, che partono dal ripensare il nostro stile di vita e richiedono una presa di coscienza sulle questioni più urgenti che interrogano il nostro tempo. Ma sono anche una forte testimonianza personale e comunitaria. Una sperimentazione continua di “Chiesa in uscita”.
Abbiamo cominciato con l’impegno per il referendum sull’acqua bene comune, per poi lavorare di anno in anno con progetti sulla mobilità sostenibile, sulla legalità e contro il voto di scambio, sulla giustizia fiscale, contro il gioco d’azzardo, sulle nuove tecnologie perché la nostra comunicazione andasse oltre le connessioni, puntando sulle relazioni.
Quest’anno la nostra campagna si chiama SE PARLASSE LA CITTA’… e ha l’obiettivo di riappropriarci del senso di appartenenza alle nostre città, attraverso uno sguardo nuovo, meno indifferente e più attento, che ci abiliti a viverle più che abitarle, a rispettarne e amarne i luoghi come occasioni di incontro, convivialità, espressione, crescita in umanità. Abbiamo voluto spiegare motivazioni e intenti di questa campagna attraverso un racconto, una favola scritta da noi, perché siamo convinti che la pace si costruisce anche diventando cittadini, pienamente, consapevolmente:
C’era una volta … la città. Camminava ormai da anni e secoli, a volte splendida e altera, beandosi dei suoi successi e della incomparabile bellezza degli scorci del suo paesaggio, dei cittadini illustri, delle sue fantastiche potenzialità. A volte procedeva dimessa e piegata, sotto il peso dei suoi scandali, delle povertà nascoste e palesi, dell’incuria, della sporcizia, delle sacche di delinquenza e corruzione che profanavano il suo territorio. Da tempo, però, avvertiva una dolorosa sensazione come di trasparenza, impalpabilità, quasi fosse invisibile agli occhi dei più. Provava a catturare gli sguardi ammirati degli uomini dietro i suoi tramonti, la cura per la struttura architettonica dei suoi edifici, il rispetto grato per la storia dei suoi più bei monumenti, l’amore per le pietre antiche del suo centro storico, l’attenzione alla bellezza nelle espressioni di arte di ieri e di oggi, l’orgoglio per le sue attività produttive… Cercava di cogliere nei numerosi passaggi di giovani, in gruppo o allacciati mano nella mano, nel filosofeggiare degli anziani sulle panchine, nell’andatura frettolosa degli adulti e negli schiamazzi dei bambini un gesto, un atteggiamento, il calco di una carezza grata nei confronti dei suoi parchi, viali, piazze, del verde che a fatica era riuscita a mantenere e preservare. Luoghi e spazi come dono di vita che generava attorno a sé vita, un brulicare di relazioni, incontri, esperienze condivise, semplicemente il regalo della possibilità di stare insieme. Eppure sentiva che il dono non bastava, che era guardato con sufficienza, usato con noncuranza, a volte volutamente sciupato e deturpato.
La città osservò i suoi piedi, le sue periferie, buie, deserte, desolate e sonnecchianti che pure erano il motore della sua storia, la culla del suo futuro, con tutte quelle persone che risiedevano proprio lì, abitavano questo futuro, anche quando sembrava stentare a decollare, confinato nel disagio, nell’assenza di servizi, di collegamenti, di progetti di bellezza. In quel momento le passò accanto un ragazzo, un telefonino in mano e la solitudine addosso. Scivolò via senza guardarla, assorto nel suo soliloquio.
La città allora si guardò le mani, i suoi centri operativi ed operosi, sentì tutta la fatica e l’impegno di chi contribuiva a renderli gangli vitali, creava impresa, investiva in attività, produceva e lavorava onestamente, tra mille impedimenti, tante difficoltà. Percepì quanto ancora tutto questo non bastasse: tanti ancora i disoccupati, gli sfruttati, i sottopagati, i licenziati. Tanti precari e lavoratori a nero. Incrociò un immigrato appostato fuori a un supermercato. Lo sfiorò, ma lui non la vide, né cambiò posizione, lo sguardo basso, la mano tesa, la povertà a fargli compagnia. La città si sentì impotente di fronte alle sue contraddizioni, alla dignità calpestata, allo studio non riconosciuto, incapace di offrire certezze e di frenare esodi disperati.
La città ascoltò il suo cuore, si augurò che battesse forte come un tamburo, in modo che tutti udissero, e che il fulcro, il nucleo della vita politica e istituzionale, il palazzo di Città, ancora fosse capace di parlare alla gente. Nel mentre, le venne incontro una donna, tanto ben vestita quanto impermeabile nella sua indifferenza e tirò dritto senza nemmeno accorgersi della sua esistenza. La città si augurò che il suo grembo fecondo continuasse a generare partecipazione attiva, più che sterile protesta; cultura costruttiva e crescita di pensiero e di confronto, più che rassegnazione e sfiducia.
Improvvisamente la città si fermò e urlò. L’urlo risuonò, rimbalzò per le strade, si moltiplicò in un’eco infinita proiettata da muro a muro, si riversò come un fiume in piena fin nelle case. Per un attimo si fece silenzio, un silenzio carico di stupore, attenzione, attesa: dentro quella bolla di sospensione, la città finalmente incontrò l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli uomini: si stagliò ben visibile davanti alle loro coscienze e sussurrò loro tutto il suo desiderio di essere ascoltata, sognata, progettata, riscattata.
Poi la città si voltò, riprese il suo cammino. Fu allora che successe. Tutti si accorsero, le videro quella scritta, trasversale sulla schiena … Fu un colpo per ognuno, la nascita di una nuova consapevolezza, la consegna – silenziosa e parlante – di un affido: tutti, piccoli e grandi, poveri e ricchi, saggi e stolti, credenti e non credenti, lessero chiaramente la scritta che la città recava sulla schiena. Diceva “FRAGILE. Maneggiare con cura”.