Il nostro respiro missionario. Intervista a don Paolo Malerba, da un anno fidei donum in Kenya

a cura di Luigi Sparapano

Ampia intervista su Luce e Vita n.35 del 23/10/2016, a un anno dalla partenza per la diocesi del Kenya. 40 anni il prossimo 8 dicembre, don Paolo Malerba è entusiasta della sua scelta e auspica il coinvolgimento della diocesi.
Riparte l’11 novembre per avviare una nuova parrocchia.
 
Caro don Paolo, dopo un anno di Africa come stai?
Sto bene, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente nonostante le difficoltà di adattamento che ci sono state; sono ritornato dopo un anno perché sento sia giusto ritrovarmi prima di ripartire, confermatissimo nella scelta che ho fatto, senza alcuna nostalgia, anche perché sono già proiettato verso la strutturazione di una nuova parrocchia che mi è stata affidata a Log logo (che in lingua rendille significa pozzo di acqua).

Riepiloghiamo le tappe di quest’ anno: il 23 settembre 2015, dopo l’iter avviato da Mons. Martella e portata a termine da don Amato, sei partito. Quale accoglienza, ruoli, impegni?
La partenza è stata molto particolare perché la morte del vescovo non l’ha resa serena, poi però tutto si è risolto felicemente. Sono arrivato in Kenya, che non è quello che avevo lasciato 8 anni fa’, anche se ci sono tornato ogni estate. Non è stato facile nemmeno passare dallo stare tra le gente, nella parrocchia di Terlizzi dove ero, al relegarmi in un ufficio in qualità di economo della diocesi di Marsabit per circa 7 mesi. Un’esperienza che mi ha aiutato a conoscere il cuore della diocesi anche dal punto di vista economico, che può sembrare meno importante, ma in realtà è decisivo. È stato possibile incontrare e conoscere i preti che venivano a chiedere aiuto, a consultarmi per risolvere situazioni, nonostante non fossi “di casa”. Quello di economo è un ruolo che mi ha preso totalmente nei primi mesi: spese da fare, pagamenti, scuole da gestire, asili, chiese e canoniche da sistemare, fondi da trovare, la corruzione che non manca anche in Kenya… Poi le distanze, che ti impongono di stare sempre su strada a percorre centinaia di chilometri (da 40 a 450 KM) per andare da una parrocchia all’altra della diocesi o agli uffici governativi. Quindi auto e ufficio. Ma questa vita non era sostenibile, non rispondeva alla mia idea di sacerdozio missionario. Nel frattempo sono stato in una parrocchia a sostituire un sacerdote malato, concentrandomi sul lavoro pastorale e, prima di partire, il vescovo Peter Kihara K., mi ha incaricato di avviare una nuova parrocchia, a Log logo.

Immagino che ne sarai stato contento.
Assolutamente si, perché lì c’è qualcosa che mi lega. È la 14ma parrocchia e per me è particolare: nel 2008, 13 dicembre, al mio primo arrivo in Africa, lì ho celebrato la prima messa; sarà dedicata all’Immacolata e io provengo dall’Immacolata. Sono anche nato nel giorno dell’Immacolata… Partito economo, tornato parroco, ma al momento continuerò ad essere economo.

Cosa ti ha scoraggiato e cosa ti ha spinto ad andare avanti?
Può sembrare strano ma non ci sono state particolari situazioni di scoraggiamento forte; piuttosto ho visto che nonostante le difficoltà, la gente ti vuole incontrare e vuole incontrare Gesù. Anche il fatto di essere in mezzo a tante persone che non conosci, non sai il nome, non conosci le lingue, diverse per ogni tribù, potrebbe scoraggiare, invece mi spinge ad imparare, a darmi da fare. I problemi non mancano. Siamo al confine dell’Etiopia e non mancano episodi di estremismo islamico che fanno paura, ma alla fine io farò la mia parte. Scoraggia il fatto che in alcune missioni, dopo 50 anni di attività di evangelizzazione, di scuola, di cultura, i giovani passano all’Islam a causa di un forte proselitismo sostenuto dai petrodollari con i quali è consentito loro studiare, andare fuori a proseguire l’Università, in cambio della professione di fede. A Log logo c’è il progetto di costruire una grande moschea e una grande madrasa (scuola coranica), per questo il vescovo ha voluto la presenza stabile di un sacerdote. Tutto questo non è motivo di scoraggiamento, ma consapevolezza della realtà in cui vivere il proprio ministero.

Qual è lo scenario sociale della tua missione?
Ci sono tante tribù e tra loro non ci sono buoni rapporti. La popolazione è nomade, molta pastorizia, nonostante il deserto. Tasso di scolarizzazione basso, le prime scuole sono state istituite 50 anni fa dai missionari fidei donum di Alba. Su una popolazione diocesana di circa 250.000 persone sparse su un territorio di 75.000 kmq, i cristiani cattolici siamo circa il 15%, molti animisti e tanti musulmani di varie etnie. Marsabit si sta sviluppando grazie all’asfalto che la congiunge all’Etiopia. La gente di Log logo è molto affettuosa, quando andavo a celebrare era una festa e non mi lasciavano andare facilmente senza riempirmi di “grazie” per aver spezzato il pane con loro, cosa che qui da noi non avviene facilmente. La cappella dell’Immacolata di Log logo è l’unica in cui si conserva il Santissimo Sacramento adorato ogni giorno dalle donne, anche senza la presenza del sacerdote.

Sei partito fidei donum, ma in questo anno travagliato per la nostra diocesi non c’è stata forse la comunione auspicata, il dialogo desiderato. Cosa auspichi per il futuro?
Il supporto mi è venuto in particolare da alcuni laici. Alcune scuole di Ruvo e Terlizzi mi hanno aiutato ad arredare la scuola di Badassa e si è costituita l’associazione Maisha onlus (vita) che cerca di farsi tramite tra le due diocesi. Mi piacerebbe che questa missione non fosse solo un fatto mio, ma che la diocesi facesse il passo che anche altre diocesi hanno fatto. Da Rossano Calabro, ad esempio, il vescovo Mons. Satriano mi ha inviato i diaconi a fare un’esperienza di missione che io ho accolto e abbiamo vissuto una bella condivisione, per me è stato un respiro importante; anche i giovani della diocesi di Brindisi sono stati con me per 25 giorni. Vorrei che i nostri seminaristi teologi facessero questa esperienza. Ecco, si potrebbero incentivare queste attività che sicuramente ci darebbero un respiro missionario e consentirebbero di capire meglio cosa avviene sui temi dell’immigrazione.

Hai già invitato il Vescovo Cornacchia?
Sì certo, ne ho parlato ampiamente ed è stato con me molto disponibile e aperto a questa missione.

Tornando sui flussi migratori, cosa pensi sia necessario fare per questo problema?
Parto dal chiedere: perché non dovrebbero partire? Noi siamo un popolo di immigrati. Il problema è quali prospettive diamo a questi popoli. Dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose col proprio nome. Chiediamoci perché la Merkel ha aperto i varchi al popolo siriano? La risposta è chiara: primo perché tanti paesi in Germania sono vuoti e mancano di mano d’opera e di professionalità. Il popolo siriano, che non è africano, ha una popolazione dal colore della pelle simile al nostro, persone che sono ben istruite, classe media elevata, ingegneri, medici… Dal versante nord africano i flussi sono determinati anche dal miraggio di una Europa di benessere, dell’idea che il bianco non lavora, dell’eldorado, del paradiso.
È ancora valido il motto di Comboni “Salvare l’Africa con l’Africa”; nel suo piano di rigenerazione dell’Africa i seminaristi, gli studenti devono rimanere in Africa, non trasferirsi in altre parti. Sfatiamo il mito di un’Africa povera, semmai è depauperizzata. Nella mia zona, in pieno deserto, la gente non ha nulla perché nessuno ha fatto niente, è più conveniente tenerla senza cultura perchè più facilmente manovrabile. Dopo i coloni inglesi, adesso è la volta dei cinesi che riversano quantità immani di spazzatura. Il problema è restituire ricchezza all’Africa. Ci sono multinazionali, anche delle nostre parti in Puglia, che sono lì a sfruttare la popolazione. C’è da dire che anche in Kenya ci sono molti rifugiati dalla Somalia, dell’Etiopia e dal Sudan, quindi anche la mia terra di missione è terra di immigrazione. Aggiungo che c’è un sospetto non molto remoto: non è che forse conviene avere gli immigrati? Chi parla dei fatidici 35€ al giorno che andrebbero agli immigrati e che in realtà vanno ad altri? Come ci spieghiamo le organizzazioni, associazioni, onlus, che si moltiplicano per l’accoglienza? E che dire dei tanti volontari (che volontari non sempre sono) che sono lì per gestire il flusso di denaro che arriva dall’Europa? Per non parlare dello sfruttamento nostrano di manodopera per le raccolte agricole che vedono tanti immigrati assoldati miseramente per un lavoro che noi non vogliamo più fare.

Il messaggio per la 90a giornata missionaria mondiale parla di “Chiesa missionaria testimone di misericordia”. Come esserlo lì in Africa, come esserlo qui in diocesi?
In Africa. Per me testimoniare la misericordia ha voluto dire imparare la loro lingua per mettermi in ascolto, quindi stare con le persone, infine far sì che gli altri possano insegnarmi qualcosa. A seguire, tutte le altre opere di misericordia che in vari modi ci sono state ripetute in questo anno e che lì in Africa sono la quotidianità. Lo stare tra la gente, assumendo il “loro odore”e far sì che anche le pecore odorino del loro pastore. A Marsabit ci siamo posti la domanda di tante donne cristiane sposate con mariti non cristiani che chiedono la comunione. Non è anche questa misericordia? Lì è frequente la poligamia tanto che pochissime persone sarebbero idonee ai sacramenti. Che fare per loro?
Qui in diocesi. Sono convinto che se come preti fossimo più fedeli alla preghiera che abbiamo proclamato nel giorno dell’ordinazione: “Conformare la nostra vita a quella di Cristo e di Cristo crocifisso e risorto”, non dovremmo faticare molto a vivere la misericordia. Tutto il resto è conseguenza, anche come stile di vita e di testimonianza delle comunità parrocchiali.

L’11 novembre riparti. Cosa ti aspetta?
Avviare la parrocchia a Log logo, attuando un progetto già disegnato di casa canonica, uffici, centro di lettura, caritas, stanze di accoglienza. Questo progetto (vedi immagine) di 200 mq costerà circa 80mila euro e con la chiesa dovrebbe aggirarsi intorno ai 300mila euro. Previsto anche un centro di formazione sociale e politica e una serie di microprogetti per sostenere anche lo studio e l’avviamento di attività lavorative.

La nostra diocesi avrebbe quindi buoni motivi e ottimi obiettivi da poter mettere in cantiere per dare finalmente corpo e sostanza al gemellaggio. Sarebbe già questo un ulteriore segno a conclusione dell’Anno Santo.