Israele-Palestina. L’invito di Washington

di Daniele Rocchi

Sono iniziati, il 1° settembre, a Washington, sotto l’egida del presidente Usa, Barack Obama, i negoziati diretti tra il premier palestinese Abu Mazen e quello israeliano Benyamin Netanyahu, in vista di un accordo di pace da raggiungersi “entro un anno”. Negoziati accolti con soddisfazione anche da Benedetto XVI che, incontrando il 2 settembre nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il presidente d’Israele, Shimon Peres, ha auspicato che questi possano aiutare “a raggiungere un accordo rispettoso delle legittime aspirazioni dei due Popoli e capace di portare una pace stabile in Terra Santa e in tutta la Regione”. L’attivismo diplomatico americano non sembra volersi fermare ai colloqui di Washington: il 2 settembre Frederic Hof, assistente dell’inviato speciale americano per il Medio Oriente, George Mitchell, ha incontrato “alti responsabili siriani” a Damasco per lavorare a un piano di pace tra Israele, Siria e Libano. A questo si aggiunge il ritiro americano dall’Iraq che mette fine alla missione di combattimento cominciata nel 2003. Di questa intensa attività diplomatica ne abbiamo parlato con Riccardo Redaelli, direttore del Middle East Program del Landau Network-Centro Volta di Como (Lncv).

 

A sentire i due leader e lo stesso Obama, le intenzioni sono serie. Ma com’è possibile in un anno sciogliere nodi come Gerusalemme, il muro, i profughi’?

“Obama, rispetto alle precedenti amministrazioni statunitensi, è più credibile come mediatore in quanto meno schiacciato sulle posizioni israeliane rispetto a Bush e Clinton. I nodi fondamentali, Gerusalemme, ritorno dei profughi, il Muro sono problemi irrisolvibili se non cambiano le impostazioni da parte israeliana e palestinese. Ogni trattativa è benvenuta, ma bisogna essere consapevoli che il rischio è quello che questi negoziati possano essere solo di facciata, di immagine, che non risolvano i problemi. Sono abbastanza scettico che i leader attuali siano in grado di giungere ad un accordo bilanciato. Ben vengano i negoziati ma con queste persone sono pessimista”.

 

Che ruolo hanno, nei colloqui, la Lega araba, l’Egitto e la Giordania, quest’ultimi due presenti a Washington?

“La Lega araba è fortemente divisa. I Paesi cosiddetti moderati, legati a gruppi sunniti, Egitto ed Arabia Saudita in testa, sono preoccupati per una radicalizzazione ulteriore del movimento palestinese, in testa Hamas, e guardano con preoccupazione il sostegno iraniano ai gruppi radicali contrari all’accordo con Israele. Vedono il sostegno popolare di cui godono questi gruppi radicali e si muovono per cercare di arginarli, sostenendo a loro volta, movimenti sunniti e sciiti finanziandoli a pioggia. Una posizione molto reattiva e poco strategica da parte araba”.

 

Mentre la Giordania e l’Egitto?

“La Giordania è un Paese piccolo ma molto rispettato e la casa reale è influente e si muove in modo saggio per cercare di guidare in senso positivo i negoziati. D’altra parte la Giordania ha molto da perdere, è un Paese fragile con tensioni etniche interne. Certamente i vantaggi economici che deriverebbero da un accordo di pace per la Giordania sarebbero altissimi. Il suo è un ruolo d’influenza, di ‘moral suasion’. L’Egitto può giocare un ruolo importante ma i sentimenti anti-israeliani sono fortissimi nel Paese. Potrebbe fare molto anche per Gaza, sotto il profilo umanitario e politico, ma fa poco perché la Striscia è nelle mani di Hamas, nemico giurato del Governo del Cairo. Nonostante ciò, l’Egitto sostiene con forza Abu Mazen e può mediare fra Israele e palestinesi”.

 

Si può dire che il grande assente ai colloqui sembra essere il Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue)?

“È un’assenza che non si nota”.