Copenaghen, un vertice in chiaroscuro

di Riccardo Moro

É finita. Delegati, giornalisti, militanti e militari da tutto il mondo hanno vissuto questa sorta di ubriacatura collettiva che è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico di Copenaghen. Per la prima volta davvero tutto il mondo si è occupato di ambiente, delle responsabilità della popolazione mondiale e del ruolo dei suoi rappresentanti. Le conclusioni hanno lasciato a desiderare, ma la prima valutazione che vorremmo condividere è positiva. Per la prima volta tutte le Nazioni del mondo si sono riunite con tanta concentrazione a parlare di clima e responsabilità dell’uomo. Per la prima volta quasi 200 capi di Stato e di governo hanno discusso insieme per due giorni in modo serrato cercando convintamente un accordo.

Non è frequente vedere i capi di Stato, preoccupati di raggiungere un accordo, rubare il mestiere a diplomatici e segretarie’ È un capitale che va sfruttato per il futuro. Sul piano politico e su quello etico. Condividere l’idea che sia necessario agire per salvaguardare il pianeta e la qualità della vita dei suoi abitanti permette di trovare più facilmente soluzioni comuni, e questo riguarda la politica ma, cosa che nel lungo periodo è ancora più importante, rafforza la consapevolezza etica che abbiamo responsabilità, che “tocca a noi”. Viviamo in un mondo in cui è forte la predicazione in favore di un individualismo esasperato che vede la libertà come uno svincolarsi dagli obblighi, immaginando percorsi solitari in cui le cose diventano possibili solo se si dispone di soldi, potere o spregiudicatezza. Sottolineare le responsabilità comuni non può che far bene per costruire in tutti i campi relazioni umanizzanti, in cui le vere scelte di libertà diventano assunzione di responsabilità per entrare in relazione con gli altri e accedere insieme a qualità di vita superiori. In questo senso la lezione di Copenaghen può essere usata positivamente.

Guardiamo più da vicino ai risultati. La prima considerazione, purtroppo, è il giudizio negativo sulla presidenza del primo ministro danese. Il governo della Danimarca ha fatto un investimento grandioso su questo evento. Una competizione tra il primo ministro Rasmussen, omonimo del suo più illustre predecessore, oggi segretario generale della Nato, e il suo ministro per il clima e l’energia, Connie Hedegaard, la vera animatrice del percorso di avvicinamento alla Conferenza, ha reso la conduzione di questo evento pessima. E l’investimento sprecato. Sui giornali danesi di questi giorni diluviano critiche sul primo ministro che da questa occasione immaginava di lanciarsi internazionalmente e che viceversa forse ha segnato il suo futuro politico. Per le prossime occasioni ci sarà da riflettere sull’opportunità di lasciare nelle mani del solo governo ospitante la responsabilità della conduzione. La prossima occasione di incontro sarà in Messico, ospitati da un governo che in questi anni è stato positivamente attivo. È un elemento di speranza, ma un ruolo più rilevante dei funzionari Onu o di una terna di Paesi nella prossima presidenza sarebbe più opportuna. Una conduzione inadeguata ha compromesso in parte i risultati. È stato indicato in due gradi l’aumento massimo di temperatura sostenibile entro il 2020. Ogni Paese dovrà specificare in modo pubblico (e dunque trasparente) il proprio impegno in termini di emissioni per ottenere il risultato in termini di temperatura. Si sarebbe potuto blindare di più il target delle emissioni, ma è comunque un impegno formale. La formula scelta sul piano giuridico è fluida, contiene l’obbligo dei firmatari senza enfatizzarla, rischiando, come avvenne negli Usa col protocollo di Kyoto, reazioni negative e marce indietro in patria. Riguardo al piano finanziario, sulla carta, si è andati oltre le attese. Dopo i ridicoli dieci miliardi di dollari promessi alla vigilia, i Paesi ricchi si sono impegnati a mettere a disposizione 100 miliardi. È un ammontare non sufficiente, e clamorosamente distante dai 5.000 miliardi per la crisi finanziaria, ma è qualcosa, con la positiva creazione di un Fondo internazionale per gestirli e un’apertura a forme innovative di finanziamento, un tema di grande interesse.

Di chi le colpe e i meriti di un risultato in chiaroscuro? Tra i promossi sicuramente il presidente brasiliano Lula e il sudafricano Zuma, che hanno fortemente spinto per la chiusura di un accordo. Buono il contributo di Obama, che ha lasciato credere di arrivare al vertice senza risorse e ha proposto poco prima del suo arrivo i 100 miliardi inseriti nel documento finale. Esigente la partecipazione cinese, appoggiata in modo a volte prezzolato dagli africani, ma mentre chiede impegni la Cina rifiuta i controlli. In ogni caso ora la vedremo sempre più protagonista. In ombra l’Europa, Italia compresa, lungi dall’abituarsi a parlare con una voce sola.