Il sacro frantoio

Mons. Luigi Martella

Carissimi fratelli nel presbiterato, carissimi diaconi, religiosi/religiose, fratelli e sorelle nel Battesimo, condividiamo la gioia di questo momento e lasciamo che questa gioia e questa luce ‘ suscitate dalla bellezza dei segni ‘ intridano le nostre anime, si imprimano nei nostri cuori a partire da quell’attenzione di cui abbiamo ascoltato nella proclamazione del Vangelo: nella sinagoga di Nazaret tutti stavano fissi con gli occhi verso Gesù. Evidentemente, c’era nell’aria un senso di tensione; si percepiva che stava per accadere qualcosa di nuovo e di inedito. Siamo chiamati anche noi a fissare lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede. ‘Guardate a lui e sarete raggianti’, dice il Salmo. Naturalmente, ‘saremo raggianti’ di luce riflessa, ricevendola dal Signore Gesù, Sommo ed Eterno Sacerdote.

 

La messa crismale è la sorgente della vita sacramentale della Chiesa, di una Chiesa diocesana. È come una ‘dispensa di grazia’ a cui si attinge. È come un sacro frantoio da dove scorrono olî profumati in abbondanza, a consacrare, sostenere, guarire, consolare, rafforzare. Dalla Chiesa Cattedrale, in mille rigagnoli o in boccette d’argento e cristallo, portate sul petto dai parroci, quell’olio santo invade le parrocchie di tutta la diocesi e racconta speranza, canta esultanza, apre scenari nuovi di trasfigurazione. Nella domenica delle Palme i rami d’ulivo sono sventolati in mille riflessi di verde e argento, per salutare l’umile Re dei Giudei che entra in Gerusalemme tra le ali dei piccoli in festa e, dopo appena tre giorni, quei rami fioriscono e portano frutto; bacchiati donano bacche preziose che, pressate sotto la mola del dolore (‘Getsemani’ significa ‘luogo del torchio’), lasciano fluire dalle piaghe olio biondo, orgoglio delle terre mediterranee.

 

Riviviamo, pertanto, attraverso il presente rito, la nostra unzione, come battezzati, come cresimati, come consacrati per il ministero e rendiamo grazie a Dio dispensatore di ogni bene. Rivolgiamo un saluto affettuoso ai nostri sacerdoti, con animo riconoscente per le loro fatiche apostoliche. Siamo uniti spiritualmente ai nostri sacerdoti che svolgono il loro ministero lontani da qui, mentre porgiamo il ‘benvenuto’ ad altri che oggi sono ospiti tra noi. Una speciale preghiera la eleviamo al Buon Pastore per il 50° anniversario di presbiterato di don Michele Fiore e per il 60° anniversario, sempre di presbiterato, di mons. Tommaso Tridente.

Fra poco tutta la comunità qui presente sarà testimone dell’atto con cui tutti loro rinnoveranno le promesse pronunciate prima dell’Ordinazione.

La nostra preghiera si elevi pure come intercessione per i nostri seminaristi e perché il Signore continui a suscitare in altri giovani la vocazione al sacro ministero.

 

Quest’anno, la santa Pasqua cade il 20 aprile, giorno anniversario della morte di mons. Bello. Il pensiero, perciò, corre inevitabilmente all’amato Pastore e alla sua ultima messa crismale, alla quale volle partecipare pur non potendo presiedere. Seduto su una sedia, consumato dal dolore, ma più vivo che mai nello spirito, ha potuto benedire gli olî, conferendo a quella celebrazione un’emozione particolare, e, insieme, il sigillo della sua consacrazione episcopale e della sua consumazione sacrificale. L’omelia che egli aveva preparato con cura, e che ha dovuto far leggere, esprimeva i sentimenti di sofferenza in riferimento alla situazione sociale di quel tempo, ma anche alla sua situazione personale. L’immagine che evoca nelle sue parole è quella del torchio che pressa, che comprime, che schiaccia. E ricorrendo al profeta Geremia, afferma: «Magna sicut mare contritio mea» («Grande come il mare è la mia sofferenza»: Ger. 2, 13). Ma il suo pensiero, poi, ha uno slancio di gioia, perché aggiunge subito: «Oggi è anche il giorno dello Spirito», e dunque la «festa della speranza». Essa traspare soprattutto da quelle altre sue parole pronunciate al termine della stessa celebrazione, quando ha voluto farsi portare al centro del presbiterio per rivolgere al popolo, al suo popolo, quello che si può chiamare l’estremo commiato: «Io ho voluto prendere la parola ‘ egli afferma con voce tremula ma penetrante – per dirvi che non bisogna aver le lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia’ il Signore è Risorto, perché Egli è al di sopra di tutte le nostre malattie, le nostre sofferenze, le nostre povertà. È al disopra della morte». Conclude il suo intervento con quel «Ti voglio bene» rivolto a tutti, un saluto che è giunto come balsamo tonificante al cuore di ciascuno. (A. BELLO, Ti voglio bene, Luce e Vita, 1993, pp. 48-59).

 

E come non pensare in questa messa crismale alle immense figure dei due pontefici che saranno canonizzati esattamente tra dieci giorni? Giovanni XXIII, il papa buono, il papa semplice, il papa della pace, e Giovanni Paolo II, il papa ‘missionario’, il papa dei ‘giovani’, al quale è stato attribuito pure l’appellativo di ‘Magno’. Grandi entrambi, nell’animo prima di tutto, entrati nel cuore della gente, oltre che negli annali della storia. Essi, quando guardano al loro sacerdozio, dimostrano stupore, gratitudine, commozione, ritenendosi sempre indegni destinatari di un grande privilegio. Ho pensato, cari sacerdoti, di proporre qualche espressione di questi due pontefici, da dove traspare la gioia e l’importanza del dono del sacerdozio. In un memorabile discorso al clero romano del 25 gennaio 1960, Giovanni XXIII affermava: «La persona del sacerdote è sacra [‘]. La buona indole, gli studi severi, la proprietà della parola e del tratto sono come il mantello che avvolge l’umanità del sacerdote: ma la linfa divina della sua applicazione ai divini misteri e alle opere dell’apostolato egli continuerà ad attingerla dall’altare. Quello è il posto suo che gli conviene innanzi tutto. Di là egli parla ai fedeli e nel volgersi a essi con linguaggio elaborato nella meditazione e fatto suo, egli ha da apparire come casa nel tempio del Signore e le sacre parole del messale, del breviario, del rituale devono risuonare nell’interiorità misteriosa della sua anima prima che sotto le volte del santuario».

Ciò che colpisce in queste solenni, e pure così ovvie, affermazioni, riscontrabili in altri discorsi, è la convinzione assoluta del pontefice che l’autenticità e la fecondità del suo sacerdozio dipendessero essenzialmente dalla sua santità personale, dalla sua vita di comunione intima con Dio.

 

Più fresche nella memoria di ciascuno di noi sono, forse, le pagine di quel libro autobiografico di Giovanni Paolo II, in occasione del 50° del suo sacerdozio, Dono e mistero, nel quale egli racconta la sua esperienza sacerdotale e ministeriale, offrendola, come egli dice nella breve introduzione «ai sacerdoti e al popolo di Dio come testimonianza d’amore». Credo che l’ampio e articolato magistero sul sacerdozio di Giovanni Paolo II, trovi la sua sintesi più intensa e convincente in questo stupendo libro. Egli, esprime così le sue convinzioni e i suoi sentimenti: «Nel suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supera infinitamente l’uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in tutta la sua vita. Di fronte alla grandezza di questo dono sentiamo quanto siamo ad esso inadeguati».

In realtà nessuno può vantare meriti particolari per essere stato scelto, e tutti i sacerdoti hanno la consapevolezza che senza l’aiuto e il sostegno del Signore non possano svolgere adeguatamente il loro ministero. San Paolo lo dice espressamente scrivendo a Timoteo: «(Il Signore) ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia» (2Tm 1, 9). Oggi, cari fratelli sacerdoti, non può mancare il ricordo della nostra ordinazione sacerdotale; ognuno la rivive con intensa emozione. Il papa, Giovanni Paolo II, fa memoria della sua ordinazione, avvenuta il 1° novembre, solennità di Tutti i Santi del 1946, nella cappella privata dell’Arcivescovado di Cracovia. Nel suo racconto, il Papa si sofferma particolarmente sul rito di prostrazione. Egli dice: «Chi s’appresta a ricevere la sacra Ordinazione si prostra con tutto il corpo e poggia la fronte sul pavimento del tempio, manifestando con ciò la sua completa disponibilità ad intraprendere il ministero che gli viene affidato. Quel rito ha segnato profondamente la mia esistenza sacerdotale. Anni più tardi ‘ racconta ancora il Papa ‘ nella Basilica di San Pietro ‘ si era all’inizio del Concilio ‘ ripensando a quel momento dell’Ordinazione sacerdotale, scrissi una poesia di cui mi piace riportare qui un frammento:

‘Sei tu, Pietro.

Vuoi essere qui il Pavimento

su cui camminano gli altri’

per giungere là

dove guidi i loro passi’

Vuoi essere Colui che sostiene i passi come la roccia sostiene

lo zoccolare di un gregge:

Roccia è anche il pavimento

d’un gigantesco tempio.

E il pascolo è la croce’.

Scrivendo queste parole ‘ conclude il Papa ‘ pensavo sia a Pietro che a tutta la realtà del sacerdozio ministeriale, cercando di sottolineare il profondo significato di questa prostrazione liturgica. In quel giacere per terra in forma di croce prima dell’Ordinazione, accogliendo nella propria vita ‘ come Pietro ‘ la croce di Cristo e facendosi con l’Apostolo ‘pavimento’ per i fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale» (Dono e mistero, LEV, p. 54).

 

Cari fratelli e sorelle, abbiamo dedicato, quasi per intero, il nostro pensiero omiletico al tema del sacerdozio. Voi lo comprendete bene il motivo: oggi infatti è giornata sacerdotale per antonomasia. Oggi ricordiamo la nascita del nostro sacerdozio, scaturito dal cuore di Cristo. E tuttavia, parlando dei sacerdoti, noi parliamo pure inseparabilmente della Chiesa, popolo di Dio. Perché non c’è sacerdozio senza Chiesa e non c’è chiesa di Cristo senza sacerdozio. Per noi sacerdoti questo è il momento della memoria del dono indegnamente ricevuto, ma è anche il momento della presa di consapevolezza della responsabilità nei confronti del gregge affidatoci.

Anche da parte vostra, però, amato popolo di Dio, ci attendiamo qualcosa: la preghiera innanzitutto, perché ogni sacerdote possa essere impregnato del buon profumo di Cristo; e poi il sostegno dell’affetto e della vicinanza. E non trascuriamo di invocare nella comunità e per la comunità il beninteso senso di corresponsabilità, che non è competizione o rivendicazione di ruoli, ma umile servizio e offerta dei carismi per il bene di tutti e per la crescita armoniosa dell’insieme.

Voglia, pertanto, il Signore, Sommo ed Eterno Sacerdote, unitamente a Maria, Madre dei sacerdoti e della Chiesa, ravvivare in tutti la fiducia e la speranza per un cammino di vera e autentica risurrezione. Così sia!                  

+ don Gino, Vescovo