L’intelligenza e il cuore

di Riccardo Moro

Per qualche ora abbiamo sperato che la paura del colonnello Gheddafi fosse più forte della sua irresponsabilità. Venerdì scorso, dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzava ogni stato membro delle Nazioni Unite ad intervenire in Libia a difesa dei civili, il colonnello prima aveva colpito in modo durissimo Misurata e poi aveva annunciato il cessate il fuoco. In quel momento abbiamo nutrito la speranza che le armi potessero tacere. Ma già all’alba del giorno successivo Gheddafi ha attaccato di nuovo mostrando ancora una volta, purtroppo, quanto valga la sua parola. È partito così un attacco imponente che mira in realtà non solo a difendere gli insorti di Bengasi, ma a far cadere Gheddafi o, almeno, ad ingabbiarlo in un cul de sac dal quale non possa uscire né trattare.

Assistere all’azione delle armi è sempre uno spettacolo terribile. È sempre una sconfitta. La sconfitta della parola, del dialogo, della ragione. E Gheddafi è certamente il principale responsabile di questa situazione.

Ma un atteggiamento diverso della comunità internazionale avrebbe potuto però affrontare la crisi in modo diverso. Intervenendo quindici giorni fa, anche militarmente per la no fly zone, le forze di Gheddafi non avrebbero raggiunto la Cirenaica, le tribù insorte avrebbero potuto essere tutelate e trattare l’organizzazione di una nuova Libia. Il dittatore era pronto a questo. L’interminabile discorso fatto fare in tv al figlio Saib, che ammoniva contro il rischio di una frammentazione della Libia in tanti piccoli emirati ‘senza peso né petrolio’ mostrava quanto questa prospettiva fosse ormai data per scontata dal vertice libico. In quel momento il dittatore non si mostrava se non in brevissimi messaggi da luoghi non riconoscibili perché si sentiva braccato dalla sua stessa gente. Il ritardo internazionale gli ha viceversa consentito un recupero ottenuto con l’aviazione contro cittadini di fatto indifesi o armati con equipaggiamenti di fortuna. In queste due settimane, inoltre, l’impunità del colonnello ha dato ossigeno anche alle frange più conservatrici del mondo arabo.

Sul piano internazionale più difficile da sostenere sarebbe stato l’intervento violento in Bahrein della settimana scorsa o il massacro di venerdì 18 marzo che fatto 52 manifestanti uccisi in Yemen dalle forze governative.

Ora l’intervento militare contro Gheddafi è in corso con un dispiegamento di forze larghissimo. Si giustifica probabilmente per tre ragioni. La prima è che la situazione oggi è molto più difficile: Gheddafi è ormai alle porte di Bengasi e occorre un intervento più forte per fermarlo. La seconda riguarda le rappresaglie: il dittatore nel suo delirio ha accusato i ‘crociati’ di uccidere civili libici e ha promesso di attaccare a sua volta i Paesi della coalizione. Il rischio è relativo, la dotazione militare di lunga gittata dell’esercito libico non è significativa, ma occorre garantire sicurezza alle coste italiane, le più vicine, e a tutto il Mediterraneo. Per questo gli attacchi sembrano mirare a ridurre all’impotenza le forze militari libiche, più che usare il minimo sforzo per proteggere i civili. La terza è che a questo punto trattare con Gheddafi, un leader che ha bombardato il suo stesso popolo, diventa imbarazzante per i leader democratici e la sua uscita di scena renderebbe molto più facile il futuro.

Questa considerazione porta a chiedersi se gli alleati mirino solo a ristabilire la democrazia. È chiaro che ai paesi ricchi, in continua sete di energia, interessa che la Libia ricca di petrolio e gas sia governata da interlocutori affidabili. Ma non sono solo i futuri affari quelli a cui guardano gli occidentali. Gheddafi sta costruendo un pericoloso ponte col Venezuela di Chavez e l’Iran di Ahmadinejad che potrebbe animare finanziariamente e politicamente formazioni terroristiche, anche al di là delle volontà dello stesso Chavez. Non mancano poi gli interessi dei singoli, come nel caso di Sarkozy che, come già faceva Blair, usa l’agenda internazionale per recuperare una pesante perdita di voti in casa. E le dinamiche rischiano di sfuggire ai protagonisti: la Lega Araba aveva probabilmente chiesto la no fly zone per farsi benvolere dagli occidentali – mentre alcuni membri come Arabia Sausita e Bahrein usavano le armi in casa propria – nella fiducia che al Consiglio di Sicurezza Russia o Cina avrebbero messo il veto. E ora il suo presidente, l’egiziano Amr Moussa probabile candidato alle prossime presidenziali in Egitto, cammina sulle uova per difendere l’autonomia araba ammonendo gli occidentali a non esagerare con le armi.

Una delegazione dell’Unione Africana è attesa a Tripoli per una missione diplomatica di pace. Gheddafi ha finanziato la nascita dell’Ua, l’ha presieduta, poi per le sue intemperanze ne è stato emarginato. L’Ua è l’organizzazione internazionale più debole al mondo. Se l’intelligenza fa pensare che gli spari dureranno ancora, il cuore ci muove a sperare che i deboli riescano dove i forti hanno fallito.