Nuova evangelizzazione: sedere accanto agli uomini di questo tempo

di Nicolò Tempesta

Mentre stiamo per chiudere quest’ultimo numero di Luce e Vita, si conclude a Roma il Sinodo dei vescovi dedicato al tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” che credo sia stato, in questo mese di ottobre, la didascalia più giusta sullo sfondo del ricordo del Concilio Ecumenico Vaticano II a 50 anni dalla sua apertura.

Il Beato Giovanni XXIII, aprendo la grande assise conciliare prospettava: «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze», e per questo – aggiungeva – «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo».

Potremmo dire che la nuova evangelizzazione per la Chiesa è iniziata proprio quell’11 ottobre e il sinodo che si conclude ne continua l’afflato di chi, ieri come oggi, ha a cuore l’annuncio del Vangelo che ha il volto e la storia di Gesù di Nazareth. Che cosa è stato il sinodo appena conclusosi a Roma se non un tentativo di rispondere a quel bisogno sempre nuovo di ogni uomo di  sperimentare ‘la bellezza e la novità perenne dell’incontro con Cristo?’.

Nel Messaggio che i Padri sinodali hanno diffuso al termine dell’assemblea, con trasparenza e altrettanto coraggio, ci invitano a non guardare con pessimismo alla realtà che ci circonda: ‘Il nostro è un mondo colmo di contraddizioni e di sfide, ma resta creazione di Dio, ferita sì dal male, ma pur sempre il mondo che Dio ama, terreno suo, in cui può essere rinnovata la semina della Parola perché torni a fare frutto. Non c’è spazio per il pessimismo nelle menti e nei cuori di coloro che sanno che il loro Signore ha vinto la morte e che il suo Spirito opera con potenza nella storia’.

Già cinquant’anni fa, il Concilio quasi anticipando la teorizzazione di ‘società liquida’ di Bauman ha preso coscienza che l’annuncio del Vangelo è credibile solo per una Chiesa compagna di strada del mondo che ne condivide ‘le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce’ (GS1). Per questo ‘Come la Samaritana al pozzo ‘ è il titolo del primo paragrafo del messaggio ‘ la Chiesa sente di doversi sedere accanto agli uomini e alle donne di questo tempo, per rendere presente il Signore  nella loro vita così che possano incontrarlo, perché lui solo è l’acqua che dà la vita vera ed eterna’.

Non so a voi, ma il dovere della Chiesa di sedere accanto agli uomini e alle donne di questo tempo dice che innanzitutto la trasmissione della fede per noi, abituati al fare, ad una vita (anche ecclesiale) progettata nei minimi particolari, con la sindrome dell’efficienza, il primo dovere e perdere un po’del nostro tempo, gratuitamente, solo per stare accanto e, volesse il cielo, saper ascoltare. Prima di arrivare a dire che Gesù è il Figlio di Dio, acqua che da la vita vera, dovremmo imparare a prendere sul serio i nostri interlocutori che, come 50 anni fa, continuano a domandarci: Chiesa che cosa dici di te stessa? Questo chiederà inevitabilmente un’attenzione ai singoli, alle loro storie, ai loro fallimenti e alle loro possibilità di ripresa. Giovanni XXIII ancora oggi, rileggendo le parole del paragrafo 6 del documento finale del Sinodo, ci avrebbe messo in guardia dai profeti di sventura raccomandandoci che: ‘La secolarizzazione, ma anche la crisi dell’egemonia della politica e dello Stato, chiedono alla Chiesa di ripensare la propria presenza nella società, senza peraltro rinunciarvi. Le molte e sempre nuove forme di povertà aprono spazi inediti al servizio della carità: la proclamazione del Vangelo impegna la Chiesa a essere con i poveri’.

La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana è un compito che ci richiama alla principale responsabilità di noi cristiani: annunciare Gesù Cristo, rimettere al centro della nostra esperienza ecclesiale il Risorto, perché è Lui che ci ha scelti come suoi collaboratori. Tradire questo compito significa tradire il Vangelo. A questo proposito in uno scritto postumo di Madeleine Delbrêl (da applicarsi, beninteso, alla nostra realtà) si legge: ‘Un giorno, questo paese che ci piace chiamare predestinato dirà, anch’esso, «Dio è morto». E noi l’avremo ben lasciato morire. Forse perché non avremo visto nella Francia «una terra di missione», non avremo pensato di partire come missionari nella nostra terra: chi nei campi, chi nel proprio villaggio, chi nel proprio quartiere. Le comunità umane attendevano i loro apostoli: quegli apostoli eravamo noi e noi abbiamo contato su altri’.