Quel “qualcosa di più” nella vita. Intervista al dr. Biagio Sparapano, missionario in Congo

a cura di Luigi Sparapano

«Una certa decadenza morale, perdita di valori, una società senza Dio» così vede l’Italia il dr. Biagio Sparapano, da 37 anni missionario in Africa. Che però aggiunge: «Ma ci sono anche tante persone che conservano e promuovono una fedeltà ai valori più profondi. La ricchezza spirituale dell’Italia non può morire». L’Italia vista dagli Africani? «È vista bene perché non c’è stato colonialismo da parte dell’Italia; c’è collaborazione tra i due Stati e lo stesso Presidente Mattarella è stato in Camerun lanciando progetti comuni, di lavoro, di sviluppo, promuovendo sul posto le capacità e le competenze necessarie».
Da poche settimane si trova in Congo, destinazione accolta con qualche esitazione, per qualche scricchiolio di salute (ha 68 anni), ma prontamente ha risposto, come ha fatto nelle precedenti esperienze.
Cresciuto nell’Azione Cattolica della parrocchia San Domenico, in Ruvo, sotto la guida spirituale di don Vincenzo Pellicani, ha cominciato sin da ragazzo ad aprirsi ad una vita che si fa dono, «il senso di una risposta all’amore di Dio, il sogno di una società più giusta da costruire, servendo come medico là dove c’è più bisogno, non dove già ce ne sono tanti». Sin dagli anni del liceo, ma soprattutto all’Università, Biagio ha cercato quel «qualcosa di più» che avesse potuto colmare l’insoddisfazione, il senso di inappagamento nonostante il notevole impegno associativo con i ragazzi. Con la complicità di Angela Pricchiazzi, conosce i Focolarini, in una Mariapoli di Martina Franca. Intanto prosegue il suo impegno di responsabilità in Azione Cattolica e parallelamente coltiva questo desiderio di donazione totale a Dio, pur non sapendo quale.
Aprile 1974: la laurea in Medicina a Bari. Un anno dopo via da Ruvo, nel 1975, per un percorso di formazione e scelta della vita comunitaria a Loppiano, e da lì a Cagliari per due anni e mezzo, dove ha completato la specializzazione in Pediatria. Arriva così la proposta ad gentes, nel 1980 in Costa d’Avorio dove ci rimane per 20 anni. Quindi il Camerun, fino a poco fa, come medico part time nel grande ospedale compreso in Fontem, una cittadella costruita dal Movimento dei Focolari nel cuore della foresta camerunense, e per il resto si occupa di attività apostoliche, con giovani, accogliendo persone che visitano la cittadella.
«Fontem è una delle realizzazioni più belle che Dio ha permesso di fare».
«Oltre cinquant’anni fa il popolo dei Bangwa, in via di estinzione per la malattia del sonno, con una altissima mortalità infantile che aveva raggiunto il 90 per cento, invano si affidava alle preghiere animiste o al Dio della foresta. «Poi si sono rivolti a un vescovo il quale, conoscendo Chiara Lubich, le aveva chiesto di mandare qualcuno per avviare una missione lì.
«Nel febbraio1966 partono per Fontem alcuni focolarini medici, infermieri, tecnici edili. Nel giugno dello stesso anno Chiara li raggiunge per mettere la prima pietra dell’ospedale. «Chiara trovò due medici e un veterinario e degli infermieri – racconta Biagio – che pian piano hanno tirato su un ospedale, cresciuto fino a diventare una cittadella, un villaggio. Le malattie più gravi sono state debellate, la mortalità infantile ridotta al 2%». «A distanza di oltre 30 anni, nel maggio 2000, Chiara ritorna in quella remota regione del Camerun: nel cuore della foresta c’è un’armoniosa cittadina con più di 600 case e un college con tutte le classi inferiori e superiori».
«Di Fontem fa parte molta gente del posto, – prosegue il medico – anche non cattolici (Presbiteriani) ma che condivide lo spirito dell’organizzazione, vivendo l’unità, la professione e la vocazione. 120 posti letto, reparti per tutte le età e per gran parte delle patologie: maternità, pediatria, chirurgica, medicina, neurologia, reparti speciali (AIDS…)».
Biagio ha studiato pediatria, ma poi si è impegnato per la cura della tubercolosi, in Costa d’Avorio, non smettendo però di svolgere la funzione di pediatria in ambulatorio.
È a Fontem che è vissuto, con altri 9 Focolarini e 22 Focolarine, intorno ai quali ruotano famiglie che fanno parte della comunità, pur avendo una vita famigliare privata. Si condivide l’amicizia e la vita di fede e si cerca di approfondire e diffondere gli orientamenti del Magistero, attualmente molto letta e diffusa l’Amoris Laetitia di Papa Francesco.
Quali le povertà del Camerun? «La più grande povertà è la mancanza di vita interiore che causa disordine nella vita esteriore, abbandono di figli, vita sregolata, povertà materiale… causa anche dei flussi migratori dei giovani che preferiscono le vie dell’America e comunque verso paesi anglofoni». Molti rimangono anche grazie alla possibilità di studio offerto da Fontem, 500 ragazzi che studiano fino alle scuole superiori e si avviano ad attività artigianali. Fu questa l’idea di Chiara, pensare subito a dare possibilità di vita piena per riappropriarsi di se stessi, del proprio territorio e del proprio futuro.
C’è distanza razziale? «Nei grandi centri questa distanza c’è, per gli strascichi del colonialismo e del neocolonialismo, ma la gente sa riconoscere chi, anche con la pelle chiara, sta per offrire un aiuto. Un rapporto bellissimo, fraterno».
«L’idea del missionario degli anni 70, l’eroe solitario che parte verso terre lontane è cambiata, si vive di più l’aspetto comunitario, l’umiltà dell’inculturazione, sapendo scoprire il bello che Dio ha già messo nella cultura degli altri; poi incarnare il Vangelo cercando di purificare alcuni aspetti della vita, ma in fondo il missionario oggi vive un dinamismo di reciprocità».
Grazie alle nostre newsletter e ai comunicati diocesani, e compatibilmente con la disponibilità di connessione, Biagio segue, per come può, la nostra vita diocesana «e questo è bello. Un contatto da mantenere vivo tra diocesani che vivono lontano la propria esperienza missionaria». E questo è bello anche per noi.
Quale bilancio? «Sono contento di quello che Dio ha fatto con me. Cerco di accettare le mie insufficienze o quelle altrui ed esserne grato a Dio».

 

© Luce e Vita n.34 del 22 ottobre 2017