Terlizzi e le sue molteplici visioni

di Paolo Vallarelli

Credo accada a chiunque, quasi quotidianamente (metaforicamente o no) di guardare al di là della finestra e osservare la propria città. Tendere lo sguardo tra la tua gente, le strade, gli angoli vitali, i luoghi che frequentiamo più spesso. Spesso ci limitiamo a fare una panoramica di particolari che colpiscono il nostro sguardo, ma altrettanto spesso non andiamo in profondità. Magari è il ritmo della nostra vita che ci rende più osservatori occasionali, piuttosto che rilevatori attenti di eventuali cambiamenti. E così inizi a pensare a quello che accade intorno a te. 
Ti chiedi se quelle case che formano la tua città seguono un percorso; ti poni interrogativi di vario tipo. La cultura, le opportunità di scambio di idee, la capacità di costruire progetti e, di conseguenza, se puoi considerarle presenti, reali e concrete. Mi ritrovo a riflettere sulla mia città, chi la abita e soprattutto, chi la vive e come la faccia pulsare. Forse non mi capitava da tempo di farlo, riconoscendo di avere una ‘non rapida e precisa analisi’ della città, proprio perché consideravo ‘scontati’ molti aspetti che invece andrebbero osservati con occhi diversi. 
La città vive la sua cultura, mescolata a tradizioni importanti. Ovviamente, è innegabile affermare che si potrebbe dare e fare di più. Ritengo che in ambito sociale la città possegga un buon livello di accoglienza; diverse sono le associazioni no profit con varie finalità. Terlizzi vive le stesse realtà di altre entità; numerosi sono i problemi sociali che sono gli stessi delle grandi realtà urbane. Usando un metaforico linguaggio fotografico, lo zoom che dovremmo usare da osservatori dovrebbe essere in grado di mettere a fuoco aree più estese, scavare a fondo e mettere in risalto dettagli che a primo impatto risultano non a fuoco. Avvicinare, forse è il termine più corretto. Anzi, direi di più, avvicinarci agli altri. Cercare di guardare non solo con i nostri occhi, ma anche con gli occhi degli altri. 
È più che mai attuale la presenza di un clochard che sosta su una panchina di Corso Dante. 
Lo abbiamo visto tutti. Di lui sappiamo poco o nulla. La città si è interessata a lui. Qualcuno gli offre quotidianamente supporto. È probabile che gli verrà consegnata una dimora per l’inverno che è implacabile. Ebbene, mi ha colpito in particolare lo sguardo che ognuno di noi ha posato e continua a posare su questo sconosciuto. Questa presenza ha personalmente ‘svegliato’ tanti interrogativi sopiti. Perché un uomo fugge? Quale è il suo passato? In cosa e in chi crede? Qual è la sua famiglia? Cosa pensa prima di addormentarsi su una gelida panchina ricolma di sacchetti di plastica? È forse la fede che ci amplia la prospettiva? È forse la fede che ci fa avvicinare a lui? È forse la fede che fa salire dal basso questi interrogativi?
Alcune risposte vengono spontanee; ogni giorno passano sullo schermo immagini agghiaccianti di profughi, bambini e adulti che non riescono a superare le difficoltà di un viaggio su un barcone. Assistiamo a fenomeni di frontiere che si chiudono perché un governo decide di non poter (o voler?) accogliere anime in fuga… Ripasso nella mente il titolo recente, proprio di Luce e Vita che invita ad andare nel mondo. Già, andiamo nel mondo. I missionari fanno una scelta coraggiosa, lasciano le proprie abitudini, ma noi che scelte facciamo? Possiamo andare anche noi nel mondo, ‘camminare’ metaforicamente senza muoverci dalla nostra città, dalle proprie abitudini? La risposta è sì. Possiamo e dobbiamo ‘leggere’ la realtà. Capire che sì, sono importanti le idee, ma che sono le persone ad agire, accogliere, ascoltare, condividere. 
Terlizzi ha tutti i mezzi (e la fede) e le risorse necessarie per timbrare la propria identità. Sa guardare ‘con gli occhi degli altri’ ma credo potrebbe fare molto di più; non dovrebbe limitarsi solo a osservare, ma farsi più ‘missionaria’ nel senso più profondo del termine. Perché allargare gli orizzonti aiuta ad abbattere i limiti (mentali) e i divari (sociali). È una sfida difficile, ma non impossibile. È una strada in salita che stanca, sfinisce, per la quale varrà sempre la pena sudare, se si vogliono raggiungere traguardi, seppure fossero i più piccoli e in apparenza senza alcuna importanza. Perché i traguardi raggiunti con la fatica ci fanno sentire ‘arrivati’, ma non appagano mai abbastanza.