Tra satira e offesa. A proposito di libertà di espressione

di Giovanni Capurso

Ancora vivo è lo sgomento suscitato dall’attentato dei fanatici islamici alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Indubbiamente un fatto importante, anche perché costituisce simbolicamente l’attentato a un principio consolidato nella civiltà occidentale: la libertà d’espressione. A tal proposito, mi ha impressionato la frase profetica che aveva pronunciato il direttore di Charlie: “Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un'auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po' pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”. 
Da diversi anni, benchè fosse un piccolo giornale (una tiratura di 80 mila copie), Charlie Hebdo ha suscitato numerosi dibattiti per le sue vignette da alcuni considerate molto spesso non rispettose della sensibilità altrui, soprattutto religiosa. L’Associazione siriana per la libertà aveva querelato Charlie Hebdo per incitazione all’odio, mentre una causa per diffamazione e ingiuria era stata presentata dall’Associazione di musulmani di Meaux. Nel 2011 la sede del giornale era stata distrutta da una bomba molotov, dopo che la redazione aveva annunciato la nomina simbolica di Maometto a direttore del numero intitolato “Sharia Hebdo” in relazione alla vittoria del partito islamico di Ennahda alle elezioni in Tunisia. 
Nel settembre del 2012 la sede del settimanale era stata messa sotto sorveglianza dopo aver pubblicato alcune vignette su Maometto all’interno di un servizio dedicato alle proteste anti-americane in corso in quei giorni nei Paesi musulmani, dopo la diffusione del trailer del film satirico sulla vita del profeta intitolato “L’Innocenza dei musulmani”.
Buona parte dell’opinione pubblica ha anche criticato un certo modo di fare satira, spesso di cattivo gusto, se non oltraggiosa, della sensibilità altrui. Di recente stanno circolando su internet, tra l’altro, vignette dello stesso giornale rivolte anche ad altre religioni, soprattutto al cattolicesimo, che ridicolizzano i simboli sacri della fede. Un umorismo forte, senza mezze misure, perfino inelegante, fa maggior presa, salta subito all'occhio, soprattutto se ha lo scopo di far anche quadrare i conti.
In questi casi il confine tra satira e offesa è evidentemente sottile. Per alcuni si configura il reato di vilipendio della religione. Per altri è semplice libertà di stampa a mezzo satira, frutto di una conquista ormai consolidata della civiltà occidentale. È giusto cioè fare informazione o una satira che non si pone il problema del “rispetto” dell’Altro (del divino e dell’umano, cioè di ciò che è intimamente sacro per la persona)? Qui in gioco sono presenti due diritti, entrambi inalienabili. 
A prescindere da come la si pensi, è legittimo il diritto di Charlie Hebdo a manifestare il proprio pensiero, per quanto possa essere giudicato da una parte scorretto. Ma altrettanto legittimo è il sentimento di umiliazione o affronto che un credente (di qualsiasi religione) possa provare davanti ad alcune vignette del settimanale francese. Talmente legittimo da potersi rivolgere ad un tribunale per vedere tutelati i propri diritti. Ciò che non è legittimo è risolvere un conflitto a colpi di kalashnikov; questo è scontato. 
I due diritti in questione sono, ovviamente, quello dei musulmani a non volere che venga raffigurato Maometto (è un diritto, non c’è dubbio) e quello dei non-musulmani (o dei musulmani che la pensano diversamente) a esigere che la libertà d’espressione non si debba fermare davanti a nulla.
I giornalisti di Charlie Hebdo sono responsabili delle proprie azioni. Ovvio. Se qualcuno vuole, possono essere anche ritenuti colpevoli di offesa, ingiuria o diffamazione. Ma nulla di più. Non può esistere una relazione di causa ed effetto tra ciò che viene pubblicato in nome della libertà di stampa e la reazione di gente che ha compiuto un gesto così eclatante con lucida follia. Ecco perché l’unico atteggiamento possibile in questo momento, come ha sottolineato anche Papa Francesco in più riprese, è la condanna di ogni forma di violenza ingiustificata e inumana, di “ogni crudeltà della quale è capace l'uomo”.