Un’eredità da riscoprire

Domenico Amato

Era il 6 agosto del 1978, ultimo giorno del campo diocesano dei Responsabili del Settore Giovani di Azione Cattolica a Tricarico; e come sempre la giornata era trascorsa tra preparativi per la partenza, scambi di frasi trascritte sulle cartelline, progetti per il nuovo anno associativo, nostalgia per la fine di una bella e grande esperienza. A casa si arriva in serata stanchi ma felici e poi… la notizia della morte del Papa.

Paolo VI si era spento a Castelgandolfo e tale notizia fu per me uno shock. Non sapevo che fare. Volevo sentirmi con qualcuno. Telefonai immediatamente all’assistente diocesano dei giovani, ed emozionato e piangente dissi: “è morto il Papa”.

Era il mio Papa, quello che avevo conosciuto, che avevo imparato ad amare, che aveva costituito il punto di riferimento della mia formazione. Il Papa del rinnovamento conciliare, quel rinnovamento che noi giovani di AC cercavamo di attuare nelle parrocchie, il Papa che aveva voluto il nuovo statuto dell’Azione Cattolica, il Papa della scelta religiosa. Dei suoi discorsi si era nutrita la mia formazione adolescenziale. Egli costituiva il mio riferimento vocazionale. Ed ora era morto.

Nella mia mente giganteggiava il suo alto profilo di quando, pochi mesi prima, si era rivolto “in ginocchio”, con un grande gesto di umiltà agli “uomini delle Brigate Rosse”, per intercedere alla liberazione di Aldo Moro. Ma ancor di più nella mia mente riecheggiavano le parole della preghiera pronunciata in S. Giovanni in Laterano per i funerali di Aldo Moro.

Il Papa che chiudeva «gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà», per me era già un santo. Nei miei ricordi di adolescente c’era il pellegrinaggio fatto a Roma dalla Diocesi per l’Anno Santo del 1975, guidato da Mons. Garzia. Avevamo udienza privata, ma il Papa quel giorno era indisposto e l’udienza saltò. A mezzogiorno eravamo tutti in piazza S. Pietro e il Papa volle salutarci dal balcone del suo studio privato.

Non erano solo emozioni quelle che mi portavo dentro. Non era nemmeno solo simpatia. Era la consapevolezza di aver intercettato una figura straordinaria, vero testimone, che eleggevo a mio punto di riferimento sacerdotale. È da lì che è cominciato il mio approfondimento del magistero, del pensiero, del vissuto di Giovanni Battista Montini. Fra tutti i suoi testi quelli che continuamente vado a rileggermi, a intervalli regolari, sono il suo Testamento spirituale e il suo Pensiero alla morte. Quel suo rendimento di grazie per la vita e per la vita cristiana: «Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? Come celebrare degnamente la tua bontà, o Signore, per essere io stato inserito, appena entrato in questo mondo, nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica? Come per essere stato chiamato ed iniziato al Sacerdozio di Cristo? Come per aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio, e d’aver avuto l’immeritato onore d’essere ministro della santa Chiesa? In aeternum Domini misericordias cantabo».

Quando i vescovi argentini, per primi, chiesero l’apertura del processo di canonizzazione, approfittai della presenza in Diocesi del Presidente Nazionale dell’Azione Cattolica, Raffaele Cananzi, per chiedere se non fosse opportuno che anche l’AC facesse proprio questo appello all’apertura del processo. Mi rispose di scrivere alla Presidenza Nazionale. La proposta la rivolsi al nuovo consiglio diocesano di AC, che fece propria l’iniziativa e firmò un appello da me preparato in cui si chiedeva l’apertura del processo per Paolo VI. Penso che fu una delle prime richieste fatte in Italia.

Domenica 19 ottobre, la santità di Paolo VI sarà riconosciuta dalla Chiesa. La sua testimonianza di fede indefettibile alla Chiesa sarà esempio luminoso da seguire. Egli che ha saputo misurarsi con la modernità e ha indicato come l’annuncio di Cristo deve costituire la priorità della missione ecclesiale, in un dialogo costante col mondo contemporaneo, sia per tutti noi modello di amore alla Chiesa nostra madre.