D’un tratto la Quaresima è calata sulle nostre esistenze, con il suo portato di angoscia e dolore. E questi quaranta giorni, dalle Ceneri alla Pasqua, ci costringono alla solitudine, nell’ambito dei più ristretti nuclei familiari, nella privazione di tante delle insegne della nostra quotidianità, anche delle liturgie domenicali. Non di rado le abbiamo vissute magari sbadigliando, con la mente che vagava, presa dalle paturnie e dalle incombenze di ogni giorno, e solo oggi ne stiamo apprezzando realmente il valore.
Quello che sta accadendo in Italia e nel mondo ci ha inchiodati alla logica del deserto.
Il deserto, quel luogo fisico in cui Cristo – lo abbiamo ascoltato durante la scorsa messa domenicale – vinse le tentazioni e noi, invece, potremmo cedere alla sensazione del vuoto, ch’è un altro dei risvolti legati a questa condizione di solitudine e isolamento.
Il deserto è luogo della sete e dell’arsura, perché il digiuno quaresimale si è trasformato da metafora – o da usanza ormai dai più dismessa – in tragica realtà. Digiuno di abbracci, affetti, di quella socialità che spesso, in altri tempi, ci appariva soffocante, dell’eucarestia, del rapporto in presenza con le giovani generazioni per gli insegnanti. In questi giorni la nostra mente – come in una fiaba nera – echeggia di divieti da non infrangere, pena il soccombere a un nemico che parrebbe invisibile e invece non lo è, in quanto si materializzato in modo dirompente.
Allora quali considerazioni si possono avanzare, perché questo tempo non si traduca in supplizio e le ore scorrano meno lente e meno inutili? Non esistono ricette, ma forse questa quaresima ci ha sottratti alla nostra normalità per ammonirci che questa è un dono prezioso, da non sottovalutare. Ha fatto il deserto attorno a noi, intendendo questo termine nell’accezione in cui lo utilizzava Tacito, nel discorso di Calgàco, quando diceva che i Romani “dove fanno il deserto, lo chiamano pace” .
Questa quaresima ha fatto piazza pulita di tutto e l’unica medicina per non impazzire è il tornare ad ascoltarci e auscultarci. Se nelle nostre vite si è fatto il silenzio, si è imposto il silenzio, non ci resta che tornare a quel battito ch’è in noi e in chi ci è accanto.
In questa condizione, due lezioni possono sorreggerci, aiutandoci a non cedere ai pensieri martellanti che ci attanagliano. La prima è quella dell’Umanesimo. “Senza il conforto delle lettere, – scriveva Petrarca nel De vita solitaria – la solitudine è esilio, carcere, tormento; al letterato invece patria, libertà, diletto”.
Petrarca a Valchiusa aveva trovato il suo buen retiro, quel luogo, lontano dal frastuono del mondo, in cui poter nutrire l’anima. Sulla scorta proprio di quanto Petrarca faceva con le Confessiones di Sant’Agostino, mi viene da suggerire un esperimento, tante volte da noi tentato, all’epoca dell’Azione Cattolica, durante i ritiri. Aprire la Scrittura, le pagine di un filosofo, o magari di un teologo, a caso, e scoprire, in quello che hanno da dirci, ciò che Dio stesso vuole comunicarci nel silenzio.
La seconda lezione è quella della Sacra Scrittura.
Il deserto, come la Croce, non è mai una dimensione ontologica infinita. Passa, come tutto passa. Agar fu scacciata nel deserto perché Sara non voleva che il suo Ismaele potesse ostacolare la successione di Isacco ad Abramo.
Nel deserto Agar credeva che sarebbe morta e invece così non è stato e, anzi, secondo la tradizione, il suo Ismaele sarebbe diventato il capostipite della stirpe araba. E Mosé dové condurre le greggi di Ietro “oltre il deserto” e arrivare “al monte di Dio, l’Oreb” per poter assistere al miracolo del roveto che ardeva nel fuoco senza consumarsi e poi udire la voce del Signore. Le greggi di Ietro erano prefigurazione del popolo ebreo, che Mosé avrebbe condotto lontano dall’Egitto, perché vagasse quarant’anni nel deserto e poi approdasse alla Terra di Canaan.
Ed è ozioso ricordare che quei quarant’anni sarebbero stati figura dei quaranta giorni di Cristo nel deserto, prologo del suo ministero pubblico, necessario perché si ponesse il tassello decisivo della storia della salvezza.
Non resta che augurarci che questa quaresima improvvisa, inopinata, indesiderata non sia solo la stagione del vuoto e del dolore, ma il tempo dell’attesa. Della speranza.
Gianni A. Palumbo