Una scossa di civiltà

Marzo Iasevoli*

Diciamoci la verità: nemmeno nei piccoli bar di paese frequentati da soli maschi si sentono più offese del genere verso stranieri, immigrati e nuovi italiani. Si, qualche parola scappa, ma all’ubriacone o al matto della compagnia. Poi però il gestore dà un urlo e finisce lì. Non parliamo delle scuole elementari, poi: è risaputo che i piccoli nuovi italiani stanno conducendo, in supplenza dei grandi, il più profondo, spontaneo e positivo laboratorio d’integrazione del Paese. Dunque: perché certi infantili e volgari epiteti ci tocca sentirli da capipartito e vertici delle istituzioni? Perché l’Italia deve apparire, agli occhi dell’Europa, per ciò che non è?

Già, ci riferiamo al noto fatto di razzismo politico verificatosi in questi giorni, l’ultimo di una lunga serie ascrivibile allo stesso partito. Inutile citare nome, cognome e partito, perché se è vero che è iniziata la “corsa al voto razzista” – come giustamente notano alcuni quotidiani – la migliore risposta è l’oblio semantico. Dimenticare il nome di chi offende, e il simbolo politico che gli permette di parlare senza mai incappare nelle sanzioni pur previste dalla legge.

Dimenticare il loro nome. Ma non le loro parole. “Orango”. Da quanto tempo non si sentiva definire così una persona nera? Forse dalle commedie all’italiana degli anni ’70, dai film di Tomas Milian (“Er Monnezza”), di Pierino e Renzo Montagnari. “Bingo bongo muoviti”, diceva la macchietta del ricco cafone. Linguaggio desueto destinato, tristemente, a sacche di voti ultraminoritarie, rancorose e disperate. Dimenticare il nome di chi offende, ma non dell’offesa, il ministro Kyenge. E’ stata scelta da centrodestra e centrosinistra, insieme, per azzardare la sfida di un’integrazione equilibrata. Se i due maggiori partiti del Paese hanno trovato la sintesi in una italiana di origine congolese, vuol dire che hanno in mente un’idea di società aperta. Al Pd e al Pdl dovrebbe unirsi, in difesa del ministro, anche M5S, sin dalle origini troppo vago sul tema stranieri e immigrazione.

Certo, il caso di queste ore solleva tre problemi reali. Il primo: non solo i cittadini, ma anche gli esponenti politici, devono e dovrebbero muoversi nell’alveo della Costituzione, dei diritti e dei doveri che essa prevede. Nell’alveo del codice civile e penale. E invece, la politica si è presa ormai il lusso di giocare fuori dalle regole di tutti in nome di una fantomatica “libertà d’espressione”. L’arbitro, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dovrebbe iniziare a richiamare ancora più severamente a comportamenti consoni, e soprattutto sollecitare il Parlamento su tre fronti: comminare giuste, severe e veloci sanzioni politiche; non ostacolare l’intervento delle autorità giudiziarie; ampliare alle condanne per razzismo i motivi che determinano l’incandidabilità di una persona.

Il secondo problema riguarda il Paese. Se è vero che i razzisti sono minoranza, non si può certo dire che esista una maggioranza di cittadini protesa all’integrazione. Sarebbe un’illusione pensarlo. Anche da questo punto di vista, c’è quella “tradizionale” zona grigia che oscilla tra privatismi, paure (alcune vere altre alimentate ad arte) e timide prese di coscienza. Chi è convinto che il futuro è fatto di convivenza, dialogo e rispetto dovrebbe spendersi molto di più sul piano culturale.

Il terzo problema si chiama Europa. Nonostante abbia scritto Carte e cartine di ogni tipo per definire i diritti e i doveri “non negoziabili” dell’Ue, il Vecchio Continente si trova oggi con un Parlamento in cui abitano razzisti conclamati. E altri ne arriveranno alle prossime elezioni primaverili. Senza che nessuno abbia fatto qualcosa per evitarlo.

L’impressione generale, in Italia come in Europa, è che a fianco ad una scossa economica occorra, altrettanto urgentemente, una scossa di civiltà.

* nota dell’Azione Cattolica Italiana