Ci eravamo lasciati a Foggia, mercoledì 21 marzo dopo la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, con la speranza di una Capitanata migliore, capace di rialzare la testa oltre le sterminate distese di grano e le coltivazioni di pomodori, desiderosa di tracciare nella propria Terra: Solchi di verità e giustizia (è stato il titolo voluto da Libera contro le mafie per quella giornata, ndr).
Quanto avvenuto il 4 e il 6 agosto in due incidenti dalle dinamiche analoghe – uno sulla SP 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri e l’altro allo svincolo della SS 16 per Ripalta – ha cercato di lasciare inerme quella speranza sull’asfalto, insieme alle vite dei sedici braccianti agricoli deceduti.
Ieri, mercoledì 8 agosto, un fiume di più di mille persone è tornato nella città di Foggia a tracciare un solco che implora verità e giustizia, partendo dalla stazione ferroviaria, passando per Piazza Cavour, per poi fermarsi in piazza Cesare Battisti, davanti al Teatro Giordano, dove sono intervenuti, insieme ai braccianti lavoratori, i rappresentanti dei sindacati promotori della manifestazione a cui hanno aderito circa 30 sigle tra partiti, associazioni e realtà ecclesiali.
Dagli interventi è emerso tutto il rammarico, dei lavoratori come dei sindacati e della gente comune, per quanto accaduto e si è alzato un grido di indignazione che dice a questa mafia che chiamiamo caporalato un vibrante e commosso Basta!. Anche la legge 199/2016 sulle Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo non ha realmente determinato un cambio di rotta. La legge, peraltro perfettibile per quanto concerne le misure preventive, stenta a essere applicata per mancanze da parte sia degli imprenditori del settore che delle istituzioni nell’azione di contrasto. Sono da intensificare i controlli degli ispettori nei campi, le operazioni di sequestro dei mezzi e la disposizione di misure cautelari per i caporali.
Intanto, la riduzione del lavoro in vera e propria schiavitù per questi braccianti, migranti o italiani che siano, è una realtà sempre più diffusa. Ciascuno di loro presta la propria mano d’opera dodici ore al giorno per 3 euro all’ora. Parte della paga viene lasciata al caporale e si torna a casa con circa 20 euro in tasca, dopo una giornata sotto il sole cocente, che spezza le schiene e la salute. Dov’è il rispetto della dignità umana e del lavoro? Per pochi euro questo popolo, spesso sommerso, rischia di morire, anzi, muore. Si muore di fatica (ricordiamo la storia di Paola Valente) come di pratiche illegali (basti pensare ai braccianti deceduti il 6 agosto, stipati in un pulmino senza sedili e prese d’aria, come fossero un carico di merce e non esseri umani). Eppure, come già ribadito in una nostra riflessione a firma di Giovanni Capurso, tutto questo fiume di sangue non ferma le chiacchiere da bar, come quelle che ieri un avventore di una caffetteria nei pressi di Piazza Cavour pronunciava guardando il passaggio del corteo: “Devono già ringraziare, perché sono in Italia. E ora reclamano pure i diritti per il lavoro! Ringrazino già per quanto sono pagati!”. Questo è il sentiment che spesso serpeggia nella popolazione e che morde purtroppo anche il cuore di tanti che si dichiarano cristiani, sventolando il Vangelo e dimenticando l’εὐαγγέλιον, la buona notizia, da annunciare, vivere, testimoniare.
La speranza, dunque, è che, soprattutto di fronte a questi accadimenti, possiamo continuare con ancora più coraggio a promuovere la dignità degli uomini e del lavoro nonché l’amore per la vita e per il prossimo al di là delle provenienze e delle appartenenze, nello stile fraterno e comunitario che il Vangelo, quello vero, ci insegna.